Regia di Shinya Tsukamoto vedi scheda film
Forse Tsukamoto Shinya è uno dei pochissimi cineasti contemporanei a lavorare seguendo un discorso umano-corporale che si delinea sempre più come violenta indagine teorica sul rapporto annullante tra la persona e la metropoli e un cinema cannibale-sperimentale. Difatti, A Snake of June è il fratello gemello di Bullet Ballet, per come dipinge il tormento viscerale dei personaggi dentro una città e un mondo di ferro e di pioggia, nerissimo, in bianco e nero. È un film sulla malattia dell’uomo e sul corrispondente cancro della modernità, ma soprattutto è un chirurgico e sincero invito a prendere possesso della propria carne, inteso come consapevolezza, coscienza di un corpo e di una vita, anche segnati da cicatrici, mancanze e distruzioni, anzi, maggiormente per questo motivo. Ecco perché A Snake of June è un film d’amore: non tanto per i sentimenti tragici e quasi catastrofici che corrono tra i tre personaggi, quanto per l’altruismo del regista verso un’espressione d’esistenza capace di trovare nel pessimismo cosmico uno spiraglio di sopravvivenza, magari attraverso l’ossessione sessuale e dello sguardo. Se Bullet Ballet si chiudeva con una corsa liberatoria, anche se del tutto senza speranza, A Snake of June riesce ad aprirsi su una possibilità, in mezzo a detriti (anche fisiologici) e al decadimento, ma pur sempre una possibilità. La donna malata che viene “liberata” da un misterioso uomo, anch’egli malato e riportato alla vita, e il marito coinvolto nel recupero della donna e di se stesso, sono elementi naturali e quasi primigeni di un universo che ha a che fare con l’idea di solitudine, spessissimo chiusa a vie di fuga. Ma Tsukamoto, con A Snake of June, ci dà il suo lavoro più ottimistico, anche se non sembra: non conciliante, si badi, ma generoso. Ed è, come al solito, stimolante, energico, conturbante, persino eccitante. Come, appunto, dovrebbe essere la vita.
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