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Jeepers Creepers. Il canto del diavolo

Regia di Victor Salva vedi scheda film

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La recensione su Jeepers Creepers. Il canto del diavolo

di scapigliato
10 stelle

Tra i ’70 e gli ’80 sono arrivate nel genere horror quattro nuove maschere del terrore, Leatherface, Michael Myers, Jason Voorhees e Freddy Krueger, che sostituivano o attualizzavano o evolvevano o integravano le prime quattro maschere dell’orrore cinematografico e letterario alla base di tutte le mostruosità a venire, ovvero, il vampiro, la creatura di Frankenstein, la mummia e l’uomo lupo. Senza dover aspettare necessariamente il nuovo secolo, già con gli anni Novanta, il cinema horror, che certo non se la passava bene, ritrova una nuova spinta creativa che ne influenza poetica ed estetica grazie a Scream (Wes Craven, 1996). Da qui, lo slasher riprende fiato, anche se abbastanza corto per gli immediati epigoni di Craven (I Know What You Did Last Summer, Jim Gillespie, 1997; Urban Legends, Jamie Blanks, 1998) e ci traghetta nel nuovo secolo, quando l’horror non solo cambia direzione, ma diventa anche un genere commerciale che non risente più di momenti di flessione vivendo, al contrario, una eterna primavera.

Almeno da un punto di vista iconografico e narrativo, e al netto di un giudizio critico, arrivano pellicole a loro modo seminali che hanno influenzato il primo ventennio dei 2000, come The Blair Witch Project (Daniel Myrick, Eduardo Sánchez, 1999), Los otros (Alejandro Amenábar, 2001), The Ring (Gore Verbinski, 2002), 28 giorni dopo (Danny Boyle, 2002) e The Exorcism of Emily Rose (Scott Derrickson, 2005): orrori in found footage e POV, case infestate, spettri demoniaci, zombi ed esorcismi sono infatti i filoni più in voga e quasi immarcescibili dell’horror mainstream. Nonostante il loro appeal e il loro consumo commerciale, sono però altre le pellicole che, pur non avendo influenzato stilisticamente il genere in ogni sua successiva declinazione, lo hanno arricchito con nuove maschere del terrore: Ghostface (Scream, Wes Craven, 1996, 1997, 2000, 2011), Creeper (Jeepers Creepers, Victor Salva, 2001, 2003, 2017), Jigsaw (Saw, AA.VV., 2004, 2005, 2006, 2007, 2008, 2009, 2010, 2017, 2019) e Art the Clown (All Hallows’ Eve, Terrifier, Damien Leone, 2013, 2016). Non vanno dimenticate figure più o meno seriali, più o meno conosciute, più o meno incisive che hanno costellato il cinema horror dai ’90 in avanti, soprattutto i serial killer, di cui Hannibal Lecter (Manhunter, Michael Mann, 1996; Il silenzio degli innocenti, Jonathan Demme, 1991; Hannibal, Ridley Scott, 2001, Red Dragon, Bret Ratner, 2002; Hannibal Rising, Peter Webber, 2007) e Mick Taylor (Wolf Creek, Greg McLean, 2005, 2013, 2016 [tv series], 2019) sono le “maschere” più celebri e autoriali.

Il Creeper protagonista dei tre film di Victor Salva è una di quelle maschere che hanno contribuito ad impreziosire l’iconografia di un genere alla deriva, senza più idee, incapace di fotografare le paure più recenti della comunità umana né quelle ataviche e ancestrali che fondano il nostro senso comune, le nostre fobie, ossessioni e turbe varie. Un genere che, nelle sue espressioni più commerciali, non sa più ferire, provocare, disgustare o affondare le proprie riflessioni su tematiche trasversali come lo stato della psiche, le fobie collettive, la sessualità e la carnalità. Il Creeper di Victor Salva invece, insieme ad altre maschere del contemporaneo, sa anche approfondire il discorso da un punto di vista sociale e politico, esistenziale e psicologico, oltre che immaginifico.

Il primo capitolo del 2001 sceglie la traiettoria narrativa di un killer car movie, con l’infernale furgoncino a inseguire le due vittime, senza dimenticarsi né della classica modulazione on the road né del linguaggio orrorifico e dei suoi tópoi di riferimento. L’ottimo lavoro di Victor Salva, va oltre la regia del film e pervade l’intera opera. Dalla scrittura alla direzione, passando per la messa in scena, il taglio delle inquadrature, la composizione della scena, il senso vivido e pastoso dell’immagine, i riferimenti a un cinema del terrore che radica nei ’70 e negli ’80, le citazioni spielberghiane – qui ovviamente Duel (Steven Spielberg, 1971) – Salva dimostra un’ottima sensibilità per il genere, un’ottima mano registica e un’ottima vis creativa. Il suo Creeper infatti, erede dell’ironico e laido Freddy Krueger, anche esteticamente, ma soprattutto nella caratterizzazione del mostro, è una delle maschere horror più emblematiche del nuovo secolo.

Nonostante nei primi vent’anni dei 2000 si è assistito a una continua e costante riformulazione dell’horror, dei suoi limiti, del suo linguaggio, dei suoi temi, delle sue figure, delle sue paure, etc., le maschere restano comunque gli elementi più incisivi ed efficaci del genere proprio grazie al loro valore iconico e simbolico, veicolo di numerose interpretazioni. La mostruosità visibile, palpabile, e carnale, preserva il suo fascino morboso e la sua riluttanza istintiva, tale da rappresentare con il suo simulacro orrorifico qualsiasi aspetto dell’universo emozionale nascosto nei più oscuri interstizi della psiche dello spettatore – e perché no, anche della sua morale consolidata. Il Creeper di Salva, insegue due giovani fratelli, un ragazzo e una ragazza e uccide e divora le sue vittime per poter continuare a vivere. Inoltre, tappezza la sua tana con i resti dei loro corpi, cuciti insieme in un inquietante affresco di cadaveri mummificati e preservati nel tempo. Cannibalismo e corporeità non possono quindi che aprire le porte a riflessioni sul corpo, la sessualità, il desiderio, la libido che il Creeper rappresenta nella sua ossessione olfattiva e nella sua insaziabilità.

Tutto si amplifica con il secondo capitolo del 2003. Qui, Victor Salva, non nasconde i suoi sottotesti e ammanta l’intera pellicola di tensioni omoerotiche che non solo innervano l’intera narrazione, ma sono il tema sotterraneo del film stesso. Non solo il Creeper desidera i corpi dei giovani ragazzi protagonisti, un’intera squadra scolastica di football americano in trasferta – di cui è celebre la scena cosiddetta “cruising” con il Creeper che sceglie le sue giovani vittime strizzando occhiolini e passando laido la lingua sui finestrini – ma sono i ragazzi stessi a desiderare senza saperlo il corpo dell’altro. Questo tema molto criptico e psicologico che affonda appunto nei meandri più reconditi della psiche, conteso tra Io, Es e Super-io, è articolato narrativamente dal regista in più motivi emblematici: i ragazzi sul tetto del bus che prendono il sole a petto nudo, le pisciate in compagnia a distanze ridotte quasi per spiare o farsi spiare; le frecciatine tra ragazzi su “cazzi mosci” e attenzioni ambigue; il grosso albero fallico che sovrasta una prateria piatta e neutrale a cui i ragazzi si aggrappano come ultima possibilità di salvezza; e infine gli agenti esterni come la natura bucolica e il caldo torrido che disinibiscono il “represso”. La componente sessuale è quindi manifesta e centrale nel secondo episodio, e di conseguenza lo stesso Creeper prende nuove significazioni: l’orco pedofilo piuttosto che la mostruosità che arriva in età adolescenziale a sconvolgere tutti gli equilibri infantili, a modificare il corpo, il corpo inteso appunto come mostro.

All'occhio allenato risultano evidenti anche tanti altri tópoi del genere come la sopravvivenza, lo scontro interno causato da una minaccia esterna, il motivo dell'assalto, etc. Motivi che richiamano un altro film culto di Spielberg, Jaws (1975), dove il peschereccio di Quint diventa il bus, mentre lo squalo, immagine primitiva e ctonia, diventa per parallelismo il Creeper. Mentre invece, narratologicamente parlando, risulta interessante, a conferma delle grandi doti di Salva, il ribaltamento delle consuete regole che organizzano il sistema dei personaggi. Difficile infatti, individuare un protagonista. Il film non si concentra su un personaggio in particolare, se non il padre vendicativo interpretato da Ray Wise o il Creeper stesso, ma preferisce vedere il “corpo” studentesco tutto come personaggio principale, passando di volta in volta il ruolo più visibile a personaggi diversi.

Nel 2017 finalmente torna, a quasi vent’anni dal primo annuncio di Cathedral, il terzo capitolo della saga il cui risultato è proporzionato alle disavventure occorse in questi quattordici di anni di preproduzione. Tra un budget irrisorio e una condanna di pedofilia per Victor Salva, il film ha subìto inizialmente il cambio di sceneggiatura e successivamente una lavorazione televisiva che ha semplificato le tematiche snaturando e avvilendo l’impianto poetico e ha limitato l’apporto formale e stilistico. Il risultato è un film più che mediocre, lontano anni luce dai primi due capitoli e sconclusionato nella sovrapposizione delle linee temporali – l’incipit infatti è ambientato 23 anni dopo i fatti raccontati nel secondo capitolo, che finzionalmente si sviluppa quattro giorni dopo i fatti del primo capitolo, per poi raccontare una storia che prende le mossa sempre dal finale del primo capitolo, quando Justin Long viene rapito dal Creeper mentre si trovava con la sorella Trish alla stazione di polizia [sorella che appare, invecchiata, alla fine del terzo capitolo].

Mancano sottotesti audaci, manca il coté prettamente horror, manca l’affondo riflessivo sulla mostruosità, necessario in un film a tematica, manca l’apprezzato gusto per il body horror a cui ci aveva abituato nei primi due capitoli e manca il commento registico a innervare l’intera pellicola. Salva infatti sembra essere assente, o presente ma sedato, senza nessun tipo di controllo sul suo film e la sua creatura che sembra una parodia di se stessa. Si può applaudire un certo sguardo registico – efficaci le prime sequenze, sia l’incipit notturno in cui riappare il Creeper sia la sequenza dedicata ai quattro ragazzi in motocross – ma il film oltre a risultare sfilacciato e mal assemblato, nonché inutile nell’economia della saga, è anche tedioso. Paradossalmente, ha fatto meglio nei due titoli precedenti, Rosewood Lane (2011) e Haunted – Dark House (2014), dove si allontanava per tematica e forma ai suoi primi capolavori di rural horror.

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