Regia di Ashutosh Gowariker vedi scheda film
Sul Planet Bollywood sventola, cinematograficamente parlando, bandiera yankee. L’antica tradizione del polpettone indiano (anni ’50) si trasforma così in un frullatone postmoderno, dove il folklore è filtrato, tra sottili ironie e aggraziate danze, da una contaminazione fatale che ha il coraggio di mischiare “Rocky” e “Jesus Christ Superstar”, Berkeley e “I sette samurai”, “Fuga per la vittoria” e “Quella sporca ultima meta”, ammiccamenti leoniani e persino qualche celentanata, chissà se volontaria o meno. Duecentoventi minuti di delirio cromatico, provocatoriamente srotolati contro la fretta del cinema americano e dei ritmi occidentali: il regista Gowariker e Aamir Khan (stella del cinefirmamento indiano, protagonista e produttore della fluviale pellicola) si prendono tutto il tempo raccontando e spiegando, innamorandosi e odiando, buttandosi in “quello stupido gioco” che si chiama cricket in barba agli inglesi e agli stessi compatrioti (che ne hanno ereditato il vizio). 1893, c’era una volta in India un impero (britannico) che okkupava e imponeva tasse agricole da togliere il fiato (“lagaan”, appunto: la rinuncia a una parte del raccolto, spesso di tutto il raccolto…), che umiliava e spadroneggiava con arroganza. Ma i contadini di Champaner, a differenza dei “pellerossa” di molte battaglie di frontiera e di migliaia di western, avevano già nel sangue la furiosa e battagliera non-violenza gandhiana. E allora, cosa di meglio di un sano e atletico agonismo, da sfogare e consumare su un rettangolo impolverato, per vincere gli infausti dominatori? Che gli abitanti di Bombay o Nuova Delhi siano impazziti per questo film, non sorprende. Ma che uno spettatore occidentale, avvezzo all’ora e mezza e solitamente restio a farsi coinvolgere da uno sport francamente soporifero, riesca a entusiasmarsi (dopo centoventi minuti già colmi e frastornanti) a una seconda parte che propone una gara che non ha certo l’appeal di una finale calcistica, dà la misura della maestria (e dell’astuzia) di un’operazione che ha il fiato del kolossal e l’afflato dell’apologo “immorale”. Quasi quattro ore di colorate emozioni per dire, in sostanza, che è il Sogno che conta. Più che un film. Un’esperienza.
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