Regia di Chang-dong Lee vedi scheda film
Tra silenzio ed eccessiva loquacità il gradino è molto piccolo. Più che le scene oniriche, inserite efficacemente in contesti spesso stranianti nella loro impietosa iperrealtà, a stonare negativamente in Oasis sono quelle scene fin troppo parlate (giusto una o due, a dire il vero), in cui le dinamiche si spiegano, e le immagini non parlano da sole. Lì il film si fa da solo i suoi sgambetti, e si costruisce i suoi piccoli difetti. Proprio in queste scene apprendiamo i filamenti inutili di una trama che se non ci fosse stata, forse avrebbe giovato: ed effettivamente per la maggior parte del tempo non la si sente. Da queste piccole scenette infatti apprendiamo che la donna malata di cui il protagonista si è invaghito teneramente è la figlia dell'uomo che il protagonista ha ucciso in un incidente (per scoprire poi altri risvolti tesi a rivelare il soffice vittimismo del personaggio), così da poter contestualizzare la trama, o forse farla apprezzare per bene a Venezia. Ma sarebbe ridicolo soffermarsi più di così su quelle che sono veramente delle minuzie; risulta invece molto più interessante andare a discutere di questo stile quasi amatoriale ma al contempo controllatissimo che Lee Chang-Dong inserisce con delicatezza, nonostante tutto, in un film duro, a tratti crudele, ma spiccatamente sincero.
Telecamera a spalla, movimenti irregolari, nessuno splendore banalmente ricattatorio: Oasis brilla di una lucentezza tutta sua grazie all'immediatezza con cui sa fare avvicinare i personaggi allo spettatore, e per come riesce a concretizzare i desideri di due protagonisti scrutati e di volta in volta nobilitati o ostacolati dalla carne. Certo la visione del regista è tutta dalla parte loro, anche se non se ne deve fare una questione di parzialità: il film mette insieme il sentimento e la spietatezza di un mondo incomunicante, in cui le convenzioni vincono sull'emozione. Poco importa se concretamente il protagonista è stato invischiato nella colpa non espiata di un altro, è il suo stesso attingere direttamente alla sua volontà istintuale a rivelare la sua spontaneità, la sua veridicità, il suo sfuggire a qualunque classificazione se non a quella di essere umano, pregno di passione, sia istintiva che sentimentale. E non lo si può nemmeno definire completamente dedito agli istinti: basta osservare l'accuratezza con cui si prende cura della protagonista, interpretata da un'incredibile Moon So-Ri, che si trasforma in donna sana e bellissima semplicemente facendo il giro su una sedia a rotelle. Mentre veniamo coinvolti pure noi nello sforzo disperato della protagonista, che cerca di sfuggire a una sua malattia che non le permette di esprimersi come vorrebbe, veniamo anche incantati da piccole trovate sfuggenti, che inseriscono il film in un'aria di pietà puramente umana: il volo della colomba bianca, o quello delle farfalle, così come la "resurrezione" durante la telefonata. Tutto si sogna e si vive immediatamente, e si toccano con mano i sentimenti più profondi, quelli che pensiamo di conoscere di più, ma che nel nostro mondo forse non viviamo più. E intanto desideriamo spingerci abbastanza in là per togliere ombre dannate dall'anima della persona amata, prima di essere portati via da mostruose dosi di crudeltà irrazionale e insignificante.
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