Regia di Clint Eastwood vedi scheda film
Quando era ancora al lavoro, Terry McCaleb, agente dell’Fbi che con i suoi casi saliva sempre agli onori della cronaca, si sentiva “connected”, legato a tutto: la vittima, il luogo del delitto, l’assassino erano parte di lui. Si sentiva vivo, probabilmente; anche se Clint Eastwood, regista e interprete, è troppo misurato e “cool” per raccontarci le sue storie con parole troppo grosse. In “Debito di sangue”, tratto dal romanzo di Michael Connelly, ci racconta la storia di un anziano agente che, colto da infarto durante l’inseguimento di un serial killer con il quale ha una sfida in corso, si ritrova due anni dopo con un cuore nuovo, “donato” scopre, dalla vittima di un’aggressione a scopo di rapina. Un cuore di donna assassinata, una messicana. E decide di pagare il debito, di scoprire il suo assassino. Sembra facile, banale, già visto? Provate a farlo fare da un regista meno classico e vedrete il pasticcio che ne viene fuori. Il bello di Clint Eastwood è che, in trent’anni di regia, non si è mai lasciato distrarre da presunzioni e vezzi, non si è mai atteggiato ad “autore”, ma ha preferito seguire l’onesta strada del grande artigianato hollywoodiano. E così facendo, ha elaborato uno degli universi poetici e psicologici più personali e riconoscibili del cinema contemporaneo. Il protagonista del suo primo film (“Brivido nella notte”) era un disc jockey perseguitato da un’ammiratrice psicopatica; poi sono venute le varie compagne e avversarie di Callaghan e le prostitute e le ragazzine che costringono i suoi cowboy solitari a rimettersi al lavoro. E oggi finalmente Eastwood, il duro pieno di rispetto e ammirazione per le donne, prende dentro di sé l’elemento femminile, il cuore, e le lacrime davanti alle soap opera e i malumori una volta al mese (come gli dice ironicamente il serial killer di questo film). “Debito di sangue” non è solo un bel thriller, pieno di rimpianti; è anche un’esemplare dichiarazione di poetica.
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