Regia di Rolf de Heer vedi scheda film
Viene subito alla mente un film del 1967, vedendo ”The Tracker“. È ”La sparatoria“, lo splendido western metafisico che Monte Hellman girò con la collaborazione strettissima di Jack Nicholson e Roger Corman. Anche lì c’è una spedizione di pochi personaggi alla ricerca di qualcosa (qualcuno) che continua a sfuggire. Qui gli elementi del gruppo sono quattro: una guida aborigena, il tracker del titolo, e tre bianchi, uno cattivo e senza scrupoli, uno vecchio e stanco, uno giovane e inesperto. Sono sulle tracce di un aborigeno accusato di aver stuprato e ammazzato una donna bianca. Attraverso il deserto australiano, negli anni ’20, si svolge una ricerca che è il lento cammino per il recupero di un’identità individuale, ma soprattutto di un paese, crepato da intolleranza e violenza. Il western di de Heer non possiede la ricchezza e la complessità inquietante della pellicola di Hellman. La sua essenzialità voluta e ricercata, quasi primigenia, molto interessante sulla carta perché riaffacciata su un universo classico andato perduto, gli si ritorce un po’ contro: a volte si sente “la scuola”, un certo didascalismo noioso che allontana gli eventi dal cuore degli spettatori. Ed è un peccato, perché le figure umane risultano leggermente distanti per coinvolgere. Ma il cinemascope è utilizzato con bel senso per la composizione dello spazio, e piacciono le canzoni che puntellano il racconto, tipiche ballate country: non è reato vivere la pellicola come musical sui generis. La stilizzazione del sangue e della violenza attraverso i disegni del famoso artista australiano Peter Coad spiazzano e incuriosiscono, eppure si ha l’impressione di un “superfluo”. Gulpilil è un volto imprescindibile della new wave australiana: ombroso, affascina di nuovo.
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