Regia di Stephen Daldry vedi scheda film
Io non capisco nulla di cinema e forse non capisco nulla di nulla. Forse per questo motivo non mi spiego, ad esempio, l’ostilità di tanta critica nei confronti di un capolavoro come questo di Stephen Daldry.
Io, tanto per dire, ero commosso fino alle lacrime durante gli ultimi minuti del film. Ma, essendo molto emotivo e facile a commuovermi, non ritengo che il mio giudizio sia da prendere seriamente.
Ma ciò che ho provato nel vedere il film è qualcosa di sconvolgente, qualcosa che ti scava dentro e rimesta in quell’immenso e informe ammasso di sensazioni, ricordi, esperienze, sofferenze, dolori e gioie che, per fortuna o sfortuna, non so, dipende da che tipo di persona sei, resta nel nostro baule interno e, solo, e dico solo, in determinate, e forse non rare situazioni, fa capolino e ci sconvolge, ci fa scoprire per quel che siamo e non pensavamo di essere.
Non penso che la sofferenza della vita e per la vita, il dolore di scoprirci inadatti al mondo in cui viviamo o, in altro modo, incapaci di affrontarlo. E’ terribile, e non lo dico certo per riferirmi a me stesso, provare la sofferenza e constatare che chi ti è vicino non la condivide, non per scarso interesse, ma per diversa statura intellettuale o, se si vuole, diversa sensibilità.
Io non provo e non sento come certi spiriti fortunati( o sfortunati, dipende da quale ottica si guardi) per non essere superficiali come me. Ma non mi azzarderei certo a qualificare il dolore altrui, o la rappresentazione di esso sullo schermo, come esercizio borghese.
La borghesia può essere vista come escrescenza purulenta di un sistema sbagliato di società. E ciò può essere anche accettabile. Ma non puoi condannarne le sofferenze frutto di sensibilità acute e di caratteri inquieti che vivono in modo profondo le vicissitudini, la quotidianità e l’incapacità di potere realizzare appieno il proprio slancio intellettuale, le potenzialità segrete e spesso inconfessabili, il desiderio di vivere in modo totale, definitivo le pulsioni del nostro essere.
Guardare in faccia la vita significa depurarsi da ogni incrostazione sociale fatta di regole, abitudini, tradizioni, convenzioni e convenienze. E cioè astrarsi, semplicemente, dal mondo e vivere fino in fondo come ci si sentirebbe di fare.
Non potendolo fare, si ricorre ad alcuni espedienti: confondersi col mondo e stringere un patto al ribasso con tutto ciò che ci sembra banale, noioso, insopportabile. La conclusione è l’infelicità. Ed è l’opzione che va per la maggiore.
L’altra soluzione è, per forza, il suicidio.
La discriminante tra le due opzioni è la consapevolezza che le nostre scelte arrecheranno sofferenza. La consapevolezza che una scelta nostra possa addolorare chi ci sta accanto può essere condizionata dall’intensità del dolore che arrechiamo. C’è chi non sopporta di recare dolore e decide di rinunciare a vivere come vorrebbe e c’è chi decide di continuare, nonostante tutto e, nonostante tutti.
C’è chi, come Laura, il personaggio di Julianne Moore, decide di abbandonare i figli, scelta che non la porterà alla felicità. Soprattutto se un figlio, che non supererà mai questo trauma, finirà per suicidarsi proprio davanti a Clarissa (Meryl Streep) di cui è stato l’amante tempo prima.
E c’è poi Virginia Woolf, interpretata da una Nicole Kidman magnificamente imbruttita. Una donna tormentata dalla depressione che la allontana da tutti coloro che le sono accanto e, in definitiva, dal mondo che la circonda.
Una donna lacerata tra il mostro della propria malattia e l’immensità dell’amore che vorrebbe e si sentirebbe di dare. Una vita straziata da una sostanziale incapacità di vivere.
Tre personaggi femminili complessi, infelici in un dramma eminentemente teatrale, anche se il soggetto è tratto dal romanzo omonimo di Michael Cunningham, senza il ritmo e l’azione che tanti si aspetterebbero (anche tanti critici), ma così intenso da sostituire a meraviglia la seduzione dell’azione con la profondità della riflessione sull’umana infelicità.
Una riflessione che cattura, avvince e scava dentro di noi. Dire che è un film verboso e noioso è come ripetere le parole dell’imperatore Giuseppe II davanti a una composizione (Die EntfÜhrung aus dem Serail) di un giovane Mozart: ”troppe note, caro Mozart”. Ridicolo.
La dimensione borghese dell’assunto, che dà tanto fastidio a certa critica, intesa come mondo lontano dalla vita quotidiana dei lavoratori, alle prese con questioni economiche e sociali di ben altro ambito, è la piattaforma che meglio si addice alla trattazione di questioni così complesse e profonde.
Tutto questo mettendo bene in chiaro che non esistono classi sociali immuni alla sofferenza esistenziale, non esistono oasi, mondi felici.
Esistono, questo sì, spazi di gioia, di amore tanto intenso quanto inafferrabile, sensazioni di pienezza e di abbraccio totale con l’altro, gli altri, il mondo intero. Di cui restano i ricordi. Ricordi di tempi trascorsi, quando ci si diceva “per sempre”: “Per sempre gli anni che abbiamo trascorso; per sempre gli anni; per sempre l’amore, per sempre, le ore”.
Quel “per sempre” ripetuto è chiave di un’intera esistenza: da un lato, il riconoscimento del fallimento di una vita intera, dall’altro l’illusione, la volontà di credere che quei momenti d’amore siano “per sempre”, nel senso che l’intensità dell’amore sentito e provato resta, indistruttibile, immarcescibile, perenne quasi a riscattare il fallimento. Qualcosa di immenso siamo riusciti a creare, pur nella nostra incapacità, inadeguatezza al mondo: valgono quei momenti, quegli anni, quei giorni, quelle ore a confortarci. Ciò che abbiamo provato e, soprattutto, dato non può morire: è un bene che non si disperde ma continua a vivere, anche fuori di noi e contribuisce a rendere migliore tutto il resto, fuori da noi stessi. Noi, si muore, lo sappiamo. Ciò che non muore è ciò che siamo stati capaci di dare all’altro e, in definitiva, agli altri. E’ un’indefinibile presenza che aleggia dentro di noi e dopo di noi, e che dà un senso alla nostra vita trascorsa.
Semplicemente straordinario.
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