Regia di Stephen Daldry vedi scheda film
Il sospetto con cui si guarda agli adattamenti di libri di successo è in genere condivisibile. Ma stavolta la tiepida accoglienza da noi riservata al film di Stephen Daldry (BILLY ELLIOT) è ingiusta. E in più, THE HOURS, tratto dall’omonimo romanzo di Michael Cunningham vincitore del Pulitzer nel ‘99, è - cosa non da poco - un film partorito da uomini che ci parla di donne, queste sconosciute. La prima è la scrittrice Virginia Woolf, ad un passo dalla pazzia nell’Inghilterra degli anni ‘30 e intenta a scrivere il suo “Mrs. Dalloway”, personale lettura del proprio disagio; la seconda è Laura Brown, moglie e madre perfetta e infelice nella provincia americana degli anni ’50, che tiene il libro della Woolf sul comodino come una via di fuga; la terza, Clarissa Vaughan, fa la editrice nella New York di oggi, convive con una donna e deve organizzare una cena per l’uscita del libro autobiografico del suo amico gay e malato di Aids, che non a caso la chiama “Signora Dalloway” come la protagonista del romanzo della Woolf. Tre epoche differenti, tre donne diverse eppure vicine l’una all’altra, un giorno per ciascuna e un libro che le lega tutte, in un gioco di paralleli rimandi e contrasti che rivela il suo fine solo all’ultimo. Ma anche una presa di coscienza del dolore, del male di vivere, della troppa insoddisfazione e incompiutezza che ci attanaglia. Il film si apre, come nel romanzo, col suicidio della Woolf e con le parole della lettera lasciata al marito, poi fa un passo indietro per farne altri cento in avanti: teatrale e tragica, la sceneggiatura di David Hare abbonda di parole e solennità per definire e siglare il senso di vite trascorse ad attendere “le ore” che non passano mai, mentre vorresti che accadesse qualcosa che, diamine, dia peso alla volontà con sprezzo del rimorso e nessun rimpianto. Omosessualità repressa, perbenismo (altro che LONTANO DAL PARADISO), latente agiografia di tre eroine a loro modo: il film di Daldry, raffinato e furbamente ricercato, utilizza anche una tonitruante e ansiogena musica di Philip Glass per raccontare in immagini un romanzo, e questo fa. E lo fa in modo onesto e toccante. Facile che le sfumature spesso non si colgano (oltre al libro di Cunningham, occorrerebbe aver letto anche il romanzo della Woolf o almeno conoscere il suo mondo sommerso di sofferenza), o che in questo intricato puzzle di vite incrociate questioni importanti vengano solo sfiorate, se non annacquate da un eccesso di lirismo, specie nel finale. Ma le tre attrici (Kidman, Moore e Streep) si strappano tra loro l’Oscar di mano e non lesinano in pianti strozzati, i comprimari sono tutt’altro che tali (Toni Collette, l’amica di Laura, appare dieci minuti ma è da applauso), si respira una certa aria letteraria e poetica (e non intellettual-culturale, come sostenuto da qualcuno), e lo struggersi del cuore prende il sopravvento anche sull’evidenza di un make-up esagerato (la Kidman nei panni della Woolf è irriconoscibile). Il libro è complesso, geometrico (procede per capitoletti ripetuti dedicati alla tre protagoniste), originale, emozionante. Il film un po’ di meno. E soffre, ammettiamo, di uno schematismo un po’ studiato. Ma di tante verità di cui ci si nutre oggi, quelle del film sono tra le meno ipocrite. Stiamo a vedere che fine fanno le otto nomination. C’è dietro la Miramax. Una curiosità: in un cameo appare Eileen Atkins, gia sceneggiatrice nel ’97 del mediocre adattamento cinematografico del romanzo della Woolf per la regia di Marleen Gorris.
(Francesco de Belvis, Roma)
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