Regia di Christopher Nolan vedi scheda film
Se c’è qualcosa di cui Christopher Nolan è certamente consapevole è il fatto di essere bravo: sa dove piazzare la macchina da presa, sa fare movimenti ampi e giocare con angolature distorte, sa riprendere paesaggi imponenti con evidente intenzioni metaforiche. Ne è talmente consapevole da non fermarsi mai a chiedersi (almeno non lo ha fatto in questi suoi primi tre film) se non sarebbe il caso di mettere, dietro a tutta questa esibizione formalistica, un po’ di anima. Il suo modello evidente (quasi dichiarato nel primo film, “Following”) è Orson Welles, il noir del maestro che cela e riflette tortuosi meandri del potere e della psiche. I suoi personaggi hanno sempre qualche disturbo che li renda “wellesiani postmoderni”: l’amnesia il protagonista di “Memento”, l’insonnia il poliziotto Al Pacino in questo “Insomnia”. L’impressione perciò è che, sotto l’intreccio poliziesco, ci sia molto di più, una percezione distorta del mondo, il passato che ritorna, comunque l’impossibilità di leggere la realtà se non sotto la scorza della finzione o della ”malattia”. Il gioco funzionava in ”Memento” (che era fin troppo programmaticamente ”a spirale”), ma mostra la corda in questo film, dove la narrazione si apre a un contesto in qualche modo ”realistico” e meno ossessivo (l’insonnia in realtà non ha un’evidenza visiva e visionaria e serve solo a far strizzare gli occhi a Pacino, questa volta servito male, letterariamente, dal doppiaggio di Giannini). E quindi, la mancanza dell’anima, di una passione o di un interesse per i personaggi, salta agli occhi. Nel vedere questo poliziotto assillato dai dubbi sull’etica del suo lavoro, stretto tra fini e mezzi, vengono subito in mente ”La promessa” di Sean Penn e i romanzi della Factory di Derek Raymond, dove i protagonisti e le vittime grondano davvero sangue e dolore. E “Insomnia”, con il suo gelo da Alaska, si ridimensiona all’esercizio un po’ presuntuoso di un “diplomato” al Sundance.
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