Regia di Takashi Miike vedi scheda film
Il seguito dello sconclusionato e scatenato DoA si trasforma in un film intimista che guarda al passato per trovare la forza, la dignità ed i valori per andare avanti: nostalgia e una serietà di fondo che il folle regista cult stempera con la consueta irriverenza ed il ritmo di sparatorie e combattimenti al cardiopalma. Il migliore dei tre.
Takashi Miike ha l’ardire di inventarsi una trilogia accomunata unicamente da una triade regista-attori, e poco altro ancora.
Dopo aver lasciato il poliziotto e il gangster a provocare addirittura una esplosione nucleare nel tentativo ognuno di venire a capo al proprio avversario, ora ritroviamo l’attore Sho Aikawa nei panni di un killer, intento a ricevere istruzioni e tattiche da un mellifluo boss (interpretato dall’altro gran cineasta nipponico Shinya Tsukamoto), desideroso di mettere zizania tra la falange cinese e quella giapponese, provocando in tal modo, con l’assassinio di un esponente di una delle due gang, una reazione a catena in grado di decimare entrambe le squadre, a suo unico vantaggio.
Peccato che un istante prima un killer sbuca dal nulla ed esegue il suo stesso incarico, lasciando a bocca asciutta il nostro mercenario: il quale intasca la paga e rivendica come suo il successo dell’azione. Ma quando il mandante lo scopre, l’uomo è costretto alla fuga, e per questo decide di imbarcarsi e raggiungere l’isola ove trascorse la propria gioventù.
Combinazione vuole che pure il killer rivale prenda lo stesso battello, e si scopra essere altresì un amico di infanzia del nostro uomo.
Insieme, ricordando i momenti di svago trascorsi assieme ad un terzo amico, l’unico con una vita regolare ed in attesa di un bambino dalla propria consorte, decidono di combattere la corruzione ed il malaffare provenienti dal loro stesso ambiente, utilizzando i proventi delle taglie dei propri incarichi per devolvere fondi ad associazioni benefiche protese alla salvaguardia dei bambini poveri africani.
Da quel momento ad entrambi, un biondo e uno moro, spunteranno due ali santificatrici a suggellare il cambiamento di rotta.
E si tramuteranno in parte di uno stormo di uccelli che già ad inizio film sorvola con traiettorie irregolari e suadenti i cieli plumbei della città.
Se il primo episodio di questa eccentrica e balorda trilogia era splatter, esaltato e veloce fino quasi alla incomprensibilità, dead or Alive 2 invece assume già da subito, o quasi, dopo in incipit ironico con Tsukamoto irascibile e ossessivo, i connotati di un percorso all’indietro verso la genuina felicità della giovinezza, della spensieratezza, del cameratismo tra amici, circondati da una natura paradisiaca che ben si inserisce in un contesto di felicità e serenità interiore.
Senza rinunciare per questo a sparatorie e scene di sangue (che Miike sarebbe altrimenti?), il film di mezzo della trilogia, a mio avviso il migliore tra tutti, appare come un inno alla vita, anziché alla condanna inevitabile, riservata nel primo film a tutti i personaggi e addirittura a tutta l’umanità: più “alive” che “dead”, come suggella la scena finale incentrata su una nuova beneaugurante nascita che in qualche modo va a compensare la fine dei nostri due protagonisti, massacrati sotto la crivella di colpi della gang avversaria.
Con Miike è difficile prendere le misure: non è mai facile capire quando scherzi e quando invece tenti di parlarci seriamente, e lo vediamo qui impegnato ad accostare - assumendosi senza troppa preoccupazione, anzi con la più naturale e disinvolta dimestichezza di chi non ha nulla da temere, rischi di coerenza narrativa e morale davvero forti - la violenza e la farsa con temi scottanti come la devastante, intollerabile moria di gente nel continente africano, ove i bambini rimangono vittime di decenni per denutrizione e malattie con percentuali da civiltà medioevale.
Si può fare del male con l’intenzione finale di fare del bene: si può di sicuro, ma è lecito o meno?
Ovvio che il folle regista ci fornisca una sua risposta chiara che non rinuncia all’ironia e a situazioni surreali che arricchiscono il film di momenti davvero forti se non addirittura poetici.
Rispetto al film precedente i due protagonisti attori (Riki Takeuchi e Sho Aikawa non hanno assolutamente imparato a recitare, ma al film non servono facce intense o particolarmente ispirate per rappresentare la follia che porta alla deriva e poi ad una santità dannata e condannata, quindi sacrificale, ma con effetti concreti.
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