Regia di Philippe Blasband vedi scheda film
Bruxelles, centrale di polizia. Un uomo sulla quarantina di nome Hubert Verkamen risponde alla convocazione nonostante sia domenica e viene sottoposto a un incalzante interrogatorio che si trasforma in un vero e proprio gioco d'abilità: l'ispettore Jean Denoote e "la commissaria" Chantal Bex cercano di incastrare Verkamen, maggior trafficante di stupefacenti della zona e sospettato dello sterminio di un'intera famiglia avvenuto giovedì sera, mentre l'uomo intende carpire informazioni sulla dinamica dell'esecuzione, dal momento che anche sulla sua testa pende un contratto di morte. Evanescente polar cerebrale che ricalca le orme di "Guardato a vista" (1981) di Claude Miller, "Un honnête commerçant" (non si capisce perché il commerciante del titolo originale sia stato banalizzato in "trafficante") è il primo lungometraggio di Philippe Blasband, sceneggiatore di fiducia di Frédéric Fonteyne e di Sam Garbarski ("Irina Palm", per dire, è uscita dalla sua penna). La rimasticatura del "Kammerpolar" di Miller non produce nulla di realmente nuovo né di particolarmente incisivo, limitandosi ad aggiornare esteriormente il modello (non più delitti di pedofilia ma esecuzioni legate al commercio di droga) e a moltiplicare i flashback rivelatori (con qualche spruzzata di sangue e grottesco a scuotere dal torpore). A dire il vero il polar di Blasband avrebbe l'intenzione di esplicitare il sottotesto politico che innerva il film di Miller (il testa a testa tra l'ispettore di estrazione popolare e il sospettato borghese), enfatizzando i riferimenti all'economia generale (il traffico di stupefacenti come ultimo rifugio del sogno capitalista) e calcando la mano sui segni esteriori che connotano socialmente i personaggi (Verkamen punzecchia Jean dicendogli sprezzantemente che indossa vestiti da misero ispettore). Ma anche in questo caso la politicizzazione esplicita non genera alcuno scatto drammatico né alcun approfondimento tematico, limitandosi a rappresentare il solito dualismo tra il villain avido e amorale contrapposto ai buoni umili e giusti. A complicare il manicheismo di fondo dovrebbe provvedere da una parte la scorrettezza dell'interrogatorio (telecamere a circuito chiuso e coinvolgimento di un poliziotto-esca all'oscuro di tutto) e dall'altra la presenza di un trauma nella vita affettiva del criminale (Verkamen è stato piantato dalla moglie e da quel momento non è più riuscito ad avere relazioni): della serie "i poliziotti non sono degli stinchi di santo" e "anche i criminali hanno un cuore". Accontentarsi di espedienti simili sarebbe pure possibile se il film li magnificasse visivamente o li sfruttasse drammaticamente, invece restano inerti diversivi sovrastrutturali (e qui si sente la natura di sceneggiatore di Blasband) incapaci di generare ricadute profonde. Messa in scena: tra "primopianismo" negli interni e "campolunghismo" negli esterni, la regia del cineasta belga di origine iraniana non regala sorprese, trovando però accenti di suggestività nell'illuminazione marcata (sia nei biancori che nei chiaroscuri) e in un accompagnamento musicale elettricamente distorto. Ultima e doverosa osservazione per le interpretazioni: se i due poliziotti sembrano usciti da un serial televisivo e Philippe Noiret (nei panni del boss maestro di vita) è spudoratamente gigione, Benoît Verhaert riesce a infondere la doppiezza necessaria al suo personaggio (soprattutto nel ruolo di manipolatore), finendo per portarsi sulle spalle tutto il peso di un film narrativamente derivativo e vagamente scolastico. In una parola, inessenziale.
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