Regia di Maura Delpero vedi scheda film
Venezia 81. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica.
Salita sul palco per ritirare il Leone d'Argento/Gran Premio della Giuria, Maura Delpero, nel suo interessante discorso, ha ringraziato Isabelle Huppert ed i suoi collaboratori per poi rivolgere la propria attenzione sul sistema pubblico dei contributi a favore del cinema. Senza addentrarsi in questioni tecniche e senza polemizzare, come fatto prima di lei da Nanni Moretti sul medesimo proscenio, l'artista bolzanina ha ricordato che tramite il sostegno pubblico i registi possono ancora realizzare i propri sogni e produrre un cinema indipendente e slegato da ottiche commerciali.
È stato merito dei fondi pubblici se Maura Delpero è riuscita a girare "Vermiglio", un progetto privo di compromessi che non avrebbe preso vita senza il sostegno statale. I privati le avrebbero chiesto di rinunciare al dialetto trentino, avrebbero ingaggiato attori professionisti ed avrebbero imposto alcuni volti famosi per attirare l'attenzione del grande pubblico.
Con i capitali privati "Vermiglio" non sarebbe stato lo stesso film. Addio alla ricerca linguistica, alla coerenza storica e sociale, addio a quella naturalezza che volti sconosciuti, o meno noti, avrebbero garantito al racconto di un tempo e di un luogo tanto lontani dalla nostra realtà.
Difficile non essere d'accordo perché il film girato in Trentino, è la rappresentazione di un ambiente montano che, fin dal primo ciak, ha dettato regole precise alla troupe sottoponendola a temperature rigide, al ghiaccio, alla neve, alla luce capricciosa delle valli.
La storia ha inizio negli ultimi mesi di guerra e termina in quelli immediatamente successivi alla sua conclusione.
In un borgo d'alta montagna gli abitanti vivono e condividono le ansie e le conseguenze del periodo. Il maestro Cesare cerca di impartire agli adulti un minimo di alfabetizzazione ed insegna ai piccoli a leggere, a scrivere e a far di conto. Contemporaneamente, assieme alla moglie Adele, manda avanti la famiglia tra razioni appena sufficienti e nuove bocche da sfamare. Tra queste vi sono quella del nipote disertore, Attilio, e del commilitone siculo Pietro, entrambi nascosti alla Repubblica di Salò in un piccolo maso.
Il paesaggio che muta nel corso del racconto è protagonista al fianco della numerosa famiglia e tratteggia una piccola comunità montana che vive al di fuori del mondo e dei clamori della guerra.
La regista, pur non utilizzando pressoché mai i campi lunghi per sottolineare la bellezza delle catene montuose e delle valli circostanti, mette in risalto i cambiamenti di un corpo che muta nelle stagioni spogliandosi del bianco dell'inverno e vestendo i colori del risveglio estivo, prima di concludere un ciclo che andrà a ripetersi nuovamente l'anno successivo. Come la natura, gli uomini e le donne di Vermiglio si spogliano di tabarri e scialli e pian piano escono dalle loro case per coltivare i campi e portare le bestie nei prati. Mentre gli animali lasciano le tane e le persone escono dai loro giacigli i sentimenti si risvegliano a loro volta, preludio della stagione degli accoppiamenti. La figlia maggiore Lucia s'innamora, così, dello strano e ammutolito soldato del Sud già sottoposto alla guardinga curiosità del villaggio durante la fredda stagione invernale.
"Vermiglio" narra dell'amore e del matrimonio della giovane Lucia, che trova coronamento nella scontata gravidanza, mentre la neve nel sottobosco si scioglie e lascia alla vegetazione il diritto di rinasce dal gelo.
Gli uomini e le donne, un elemento primitivo e, almeno nel contesto montano degli anni '40, specie incapace di cambiare le ataviche leggi della natura, si muovono tra boschi e pendii, condividendo spazi comuni e quanto (poco) la montagna riesce ad offrire. Le genti della valle si sfamano, mettono su famiglia, migrano in cerca di fortuna, ed, infine, muoiono, in tutto simili agli abeti che ricoprono i pendii, agli animali che pascolano o nidificano sulle vette, alle specie arboree che crescono nei campi. Una vita semplice, modesta e silenziosa che i montanari replicano alla perfezione secondo i ritmi consolidati della natura.
Diceva Johann Wolfgang von Goethe che "I monti sono maestri muti e fanno discepoli silenziosi". Maura Delpero si appropria del poeta. Le sue genti vivono senza far rumore abbandonandosi alla lentezza e al silenzio imposto dal territorio che li nutre. Un'idea che, a mio avviso, traspare dalla fotografia di Mikhail Krichman, che livida in inverno e appena sfiorata dal colore nella bella stagione, comunica, nella maestosità dell'ambiente naturale, l'umiltà di un contesto sociale contraddistinto da una realtà che non ammette eccessive ed artificiose impennate cromatiche ma accetta la propria stinta realtà senza scossoni, facendo propri i toni della neve, della terra, dello sterco è della cenere.
La cura dei dettagli è maniacale non solo nelle inquadrature medie e nelle scelte cromatiche. La scenografia, i costumi, le musiche che escono dalla tromba del grammofono di Cesare, ci sospingono in un tempo irrimediabilmente perduto. Ma sono i personaggi con le loro tragedie sussurrate, i motti dell'animo, la saggia ignoranza contadina, le speranze, le superstizioni, la capacità di reagire alle sventure e guardare oltre l'orizzonte, a rendere unico questo delicatissimo film.
Chi di voi avrà la pazienza di sfidare il dialetto ed i sottotitoli, ma attenzione le parole non sono mai troppe né sciocche o banali, si ritroverà davanti la saggezza dei propri vecchi e un'abbondante nevicata di ricordi.
Nato nel 1975 e da sempre vissuto in una piccola realtà di provincia ancora agricola nel proprio intimo, sono cresciuto, almeno in parte, in un ambiente contadino che ho facilmente riconosciuto nella casa di Cesare, tra i banchi di scuola e nelle occasioni di convivialità, fossero un canto di augurio, una chiacchera in compagnia od una tirata di tabacco. Ho riconosciuto le storie degli uomini e delle donne raccontatemi dai nonni materni ed ho respirato le tradizioni del passato ed i discorsi di una volta sull'onore, sull'amore e così via.
Maura Delpero riporta alla luce i tempi in cui i bambini morivano, i gioni in cui la bellezza e le stravaganze erano un lusso ed il legame con la terra era naturale. Grazie alle donne della casa, tuttavia, si permette di raccontare anche il lato femminile dell'esistenza. Il destino di Adele è quello di partorire e curare la casa, quello di Cesira di fare la propria parte come ospite e vedova. Le ragazze, invece, hanno sogni e forse altre aspettative rispetto alle matriarche. Speranze che non riescono a concretizzare pienamente perché il mondo non è ancora dalla loro parte. Lucia è costretta a lasciare in amorevoli mani la propria creatura, Ada a nascondere sotto un velo di religione la propria stravaganza. La selvatica ed indomabile Virginia a raggiungere il Cile. Infine, la prediletta Flavia, è spinta a lasciare, a malincuore, la valle per riscuotere una fortuna indesiderata.
Come in "Maternal", precedente lavoro di Delpero, i sentimenti non vengono esposti alla morbosa curiosità dello sguardo. Il film di conseguenza risulta intimo ed accogliente come un letto caldo da dividere in tre. La violenza, che la vita riserva alle donne e agli uomini, è vissuta con dignità senza slanci di patetica disperazione.
Infine è d'obbligo una parola per il piccolo Pietrin. È il regalo più bello, le "Quattro stagioni" di Vivaldi che girano nel piatto del grammofono, la gioia che alimenta la casa. Vivace come un temporale, curioso e candido come un pulcino, egli sommatizza le disgrazie di casa tramutandole in ali di poesia destinate al cielo. Porge domane inconsuete ed, impertinente, infonde quella fanciullesca ed ingenua allegria che gli adulti hanno ormai perso. Pietrin riporta il sorriso e svuota l'anima dai cattivi umori perché in fondo la vita non è mai interamente una tragedia.
La vita è come una vetta coperta da nuvole e nebbia a cui un raggio di sole penetrante può regalare una piccola gioia immensa.
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