Regia di Artur Aristakisjan vedi scheda film
In un diroccato edificio di Mosca ha sede il Tempio dell'amore, una casa comune nata con lo scopo di dare ospitalità alla variegata comunità di emarginati sociali : hippy, storpi, barboni, famiglie senza tetto, bambini abbandonati. Gli ispiratori della comune non si limitano a dare un tetto a chi non ce l’ha, ma ambiscono a vivere insieme a loro ed insieme a loro intendono costruire migliori condizioni di vita. Il leader riconosciuto di questa casa comune è un uomo votato all’ascetismo il cui atteggiamento oscilla tra il mistico e il profetico. Predica l'amore libero dalle costrizioni della carne e si è auto castrato per porsi come esempio di sacrificio estremo per il bene dei principi propugnati nella casa comune. Nel Tempio dell'amore si cerca di darsi umanamente agli altri per affrancarsi dalla disperazione che attanaglia ognuno. Ma le difficoltà per le sorti dell'intera comunità arrivano quando il suo fondatore è costretto a fare i conti con le proprie insuperate debolezze. In tal senso, un fatto importante è l’arrivo di una donna che si fa chiamare Maria, una barbona molto malmessa che anche se condivide lo spirito solidaristico che caratterizza la comunità non riesce a farsene totalmente partecipe.
“Un posto sulla terra” di Artur Arintakisjan è un film impregnato di un dolore che sembra inestinguibile tanto si è impossessato della carne viva del mondo. Un dolore che per essere compreso ha bisogno di uno sforzo sovrumano. Il regista di origine moldava ha vissuto in prima persona l’esperienza di una comune, una sorta di esperimento sociale che riunisce barboni, hippy, storpi, insomma, uomini e donne di diversa estrazione che si danno alla comune condivisione di spazi e di beni per sfuggire alla compassionevole misericordia della cosiddetta società civile.
Il film che ne ricava Artur Aristakisjan ha il pregio di far emergere, tanto la solidarietà disinteressata che gli ultimi sono ancora in grado di scambiarsi a vicenda, quanto il peso etico della marginalità sociale prodotta dall’indifferenza generalizzata. E lo ha fatto senza speculare sul potenziale emotivo che sempre può scaturire da una retorica rappresentazione della povertà, privandola anzi di ogni forma di implicazione sentimentale. La tecnica cinematografica fa abbastanza, Aristakisjan adotta infatti uno stile di regia secco ed essenziale, teso ad avvolgere in un bianco e nero asettico l’adesione febbrile ricercata per ogni singola inquadratura. La macchina da presa entra nelle cose conferendo ai suoi movimenti un valore più connotativo che descrittivo, la sua libertà di azione indirizza le traiettorie della sofferenza come a volerla fissare nella mente per quella che autenticamente è. Il tutto è contrappuntato da una colonna sonora (del musicista inglese Robert Wyatt) che sposa con discreta eleganza la disadorna sobrietà del luogo.
Tanti piani ravvicinati a penetrare la disperazione degli occhi, tanti particolari sulle ferite della carne, tanti dettagli per mostrare il nulla che arreda la casa comune. Tutto contribuisce a disegnare le forme del Tempio dell’amore, uno spazio che si è autoescluso dal mondo e che dal mondo non chiede neanche di ricevere compassione. Eppure, c'è tanto amore nella casa comune, un amore ridotto al suo carattere essenziale, quello che si concede senza nulla a pretendere, quello privo di qualsiasi forma di sovrastruttura compromissoria. Quello che ha nella disperazione un suo vitale controcanto. Un amore rivoluzionario quindi, che proprio perché tale può far paura ai suoi stessi beneficiari se non si riconoscono capaci di reggerne l’urto perché manchevoli dei necessari requisiti etici.
“Un posto sulla terra” è dunque una parabola umanista incentrata su un dato politico di matrice socialista da un lato e sul carattere religioso d'impronta cristiana dall'altro. Il primo si basa sulla volontà di agire secondo l'idea che la cosa più giusta da fare e distribuire i beni comunitari secondo i bisogni di ognuno. Il secondo è ricavato dalla convinzione fideistica che solo dalla sofferenza si può ricavare la gioia. Questi due aspetti fanno la sostanza speculativa dell'intero sviluppo narrativo, contribuendo di fatto a far emergere quello che ha sufficienti argomenti per essere definita la tesi forte del film : la sofferenza è un dolore inascoltato e chi ne è vittima non può affrancarsene da solo. Credo infatti che l'abilità di Aristakisjan è stata appunto quella di sottintendere un continuo rapporto dialettico tra la vita dentro la casa e il mondo di fuori : da un lato, la bellezza rivoluzionaria che scaturisce dalla semplice intenzione di voler dare conforto a chi non è tenuto ad elemosinarlo, dall'altro lato, i limiti derivanti da una pratica esperenziale troppo chiusa in sé stessa.
C’è un posto sulla terra dove ogni persona messa ai margini dalla società può dire “questa è casa mia “. C’è un posto sulla terra dove il soddisfacimento di bisogni primari già significa avere abbastanza. C'è un posto sulla terra, che è anche l'ultimo possibile, dove dalla somma di ogni singola disperata vicenda esistenziale si può ricavare tanto amore da poterlo distribuire a tutti. C’è un posto sulla terra che non è ancora pienamente come si vorrebbe che sia. La regia di Arastakisjan rende visivamente questo passaggio ancora da concludersi, lasciando che la connotazione utopica dell'amore che percorre il film contrasti apertamente con gli spazi degradati e degradanti che ne caratterizzano la messinscena, come a voler rimarcare l’assoluta difficoltà a far seguire ad ogni acquisita consapevolezza ideale una corrispettiva soddisfazione materiale. A dimostrare questi sono soprattutto due personaggi simbolo. Il primo è il fondatore del tempio dell’amore, una sorta di profeta che si è auto castrato per innalzarsi spiritualmente al di sopra delle debolezze terrene. Ma il suo esperimento vacilla allorquando le sue più strette collaboratrici gli fanno notare che, per effetto del suo essere sempre al centro dell’attenzione, le tentazioni della carne e la fascinazione per il potere sono sempre in agguato. La seconda è una donna che si fa chiamare Maria, che dal suo arrivo nella comune diventa l'inconsapevole simbolo di un cerchio difficile da chiudere : quello che conduce all'esaltazione dei sentimenti più puri attraverso la fuga dai mali del mondo.
Sono due almeno le scene di grande impatto emotivo. La prima riprende uno storpio abbastanza anziano mentre viene adagiato in una vasca piena d'acqua per essere lavato dagli abitanti del Tempio dell’amore. Tutte mani desiderose di fare il proprio dovere caritatevole. La seconda segue un uomo dai connotati asiatici che avvolge, ricambiato di baci e di carezze una barbona che dorme in strada. Perché è così che si mettono in pratica gli insegnamenti ricevuti al Tempio dell’amore : donando la grazia a chi sa e deve riceverla. I due si guardano e si giurano eterno amore. Ma possono farlo solo nel calore avvolgente dei loro corpi.
Il dolore rimane un fatto inestinguibile e la comunità dei poveri portata al cinema da Artur Aristakisjan ne rappresenta una precisa incarnazione. Così come l'esperienza comunitaria del Tempio dell’amore dimostra che il sacrificio vissuto come un radicale strumento di emancipazione, se da un lato può servire a non far disperdere quanto resta nel mondo del senso dell'umano, dall'altro lato non libera il genere umano dalla più cupa disperazione. Dalle parti del capolavoro.
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