Regia di John Singleton vedi scheda film
Il brutale omicidio di un ragazzo di colore scatena il solito pandemonio razziale nella città di New York. L’omicida è un ricco biondino dell’Upper Side, feroce e arrogante, che commette l’errore di provocare un grosso sbirro di nome Shaft. “Still the Man”, come recita la locandina americana? Mica tanto, perché questo Shaft è in realtà il nipote di quello originale. I tempi sono cambiati, e da Harlem la scena si sposta a Manhattan, tra locali alla moda e macchine di lusso. E se il “bad motherfucker” degli anni ’70 (torna, in un cameo, Richard Roundtree) era comunque un figlio del ghetto, qui il nostro eroe passa di sequenza in sequenza mostrando i suoi abiti firmati. Abbastanza stupida la storia, mentre le sequenze d’azione sono realizzate con una certa professionalità e Singleton, che ha accettato di dirigere per motivi alimentari, gira al solito molto bene. Il nuovo “Shaft” è dunque un prodotto di largo consumo cui solo l’eterna musica di Isaac Hayes conferisce un minimo di valore aggiunto. I riferimenti alla blaxploitation sono meri strumenti del marketing, dato che il personaggio di Samuel L. Jackson poteva chiamarsi Stone, Washington o DeVeraux senza che la storia cambiasse di una virgola.
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