Regia di Wes Anderson vedi scheda film
Non fu il cloroformio a parlare.
Se fondamentalmente, dal cinematografico PdV geometrico-sintattico, “the Wonderful Story of Henry Sugar” (7.75) è narratologicamente organizzato come un origami-matrioska, “the Swan” (8.50) come un labirinto e “the Rat Catcher” (7.75) come un crocevia, quest’ultimo “Poison” (8.00) risulta essere architettonicamente il più lineare dei quattro medio e cortometraggi che Wes Anderson ha tratto nel 2023 per Netflix da Roald Dahl (in questo caso il racconto traslato è tratto dalla raccolta "Someone Like You" pubblicata nel 1953 e fu già trasposto un lustro dopo nel 118° ep., il 1° della 4ª stag., di "Alfred Hitchcock Presents", stravolgendone il finale e di conseguenza il senso/significato, per mano/occhio/regìa della messa in scena di Hitchcock stesso), spostandosi per mezzo di carrellate laterali attraverso le scenografie comunicanti di Adam Stockhausen lungo l’orizzonte dei tre ambienti/stanze/set spesso ma non sempre contiguamente in connessione diretta gli uni agli ulteriori passando per le altre (fotografia in 2.35:1, 4:3, split-screen e con un breve momento barrylyndoniano di camera a mano di Robert Yeoman e montaggio di Barney Pilling & Andrew Weisblum). E dei quattro è senz’altro il più esplicitamente politico, sfociando nella didascalicamente vomitat’addosso allo spettatore e soprattutto al dottor Ganderbai interpretato da Krishna Pandit Bhanji aka Sir Ben Kingsley (che dopo “Schindler’s List” non deve più alcunché al mondo, ma grazie al Prodigioso Spaghetto Volante continua a farlo) cinica crudeltà dell’agire comune del colonizzatore britannico (“You dirty, little, Bengali, sewer rat. You dirty, brown, filthy, little backwards-caste!”) qui impersonato schifosamente bene Benedict Cumberbatch (mentre Dev Patel agisce da trait d’union fra i due sfornando un’altra performance d altissimo valore) e in esso salvo eccezioni ur-strutturalizzata così come del resto era il sistema delle caste: se Churchill non riteneva possibile dare l’indipendenza a gente che trattava così male i suoi stessi simili – e quando questo avvenne, nel primo dopoguerra, suddividendo la regione e la comunità in due stati, uno indù, che poi si laicizzò (per tornare oggi, dopo Singh, in mano ai fondamentalisti di Modi), e l’altro mussulmano (il Pakistan dell’ovest e quello dell’est, ovvero il Bangladesh, che un quarto di secolo dopo, alleandosi con l’India, divenne indipendente per mezzo di una guerra che causò tre milioni di morti e dieci milioni di sfollati), provocò il massacro di un milione di persone e la diaspora di dieci milioni di esseri umani – Gandhi in età giovanile-adulta, durante il suo lungo periodo di permanenza in SudAfrica, era razzista nei confronti degli appartenenti al gruppo melanodermatico aka ramo etiope-negroide.
Contestualizzazione storica tra paternalismo (divenuto, seppellendo una generazione dopo l’altra lungo un secolo e mezzo di storia, senso di colpa tardivo) ed estremamente responsabile (nell’accezione di emancipata) presa di coscienza (i primi schiavisti negrieri furono gli autoctoni africani).
Take up the White Man's burden -
Have done with childish days -
The lightly proffered laurel,
The easy, ungrudged praise.
Comes now, to search your manhood
Through all the thankless years,
Cold-edged with dear-bought wisdom,
The judgement of your peers.
Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco -
Dimentica i giorni dell’infanzia -
L’alloro offerto con leggerezza,
L'encomio facile, concesso di buon grado.
Viene ora a esaminarti, nell’età adulta,
Per tutti gli anni ingrati,
Freddo, affilato da saggezza costata cara,
Il giudizio dei tuoi pari.
Rudiard Kipling - “The White Man's Burden (The United States and the Philippine Islands)” - McClure’s - 1899
«If there was an implicit self-hatred in trusting only your own, then how much deeper was the self-loathing that led a group of men to distrust someone for no reason other than that he was one of them?»
Amitav Gosh – “the Glass Palace” – 2000 (con sotto-fondo/testo birmano)
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