Regia di Peter Yates vedi scheda film
"Dove? Dov'era la tempesta? Io vi chiedo tuoni, pioggia, un uragano e voi mi date sgocciolii e sibili. Io vi domando fulmini che stronchino le querce e voi mi rispondente con ridicole scorregge di bosco! Io sono la tempesta, io sono il vento e lo scroscio, il fuoco e il fulmine, e tutto quello che ottengo sono vecchi tamburi da funerale. Io voglio una tempesta non una pioggerella!"
Vivere completamente all'ombra di qualcuno per servirlo, aiutarlo, compiacerlo, fargli da suggeritore, persino lavarlo. Il tutto fino ad annullarsi, a perdere coscienza di se stesso, della propria identità, della propria esistenza. E' forse questo l'aspetto più riuscito, appassionante ed originale del film, splendidamente esemplificato nello struggente e doloroso finale, in cui il servo di scena Norman scopre malinconicamente che l'uomo per il quale ha fatto da fedele e generoso factotum per tutta la vita, nella sua autobiografia, ha ringraziato tutti, compresi falegnami, elettricisti e guardarobieri, dimenticandosi proprio di lui. "Dove vado io adesso, dove? Non posso vivere fuori dal mio elemento. Che succederà di me? Cosa posso fare io adesso? A me chi ci pensa?" Norman, ubriaco e fuori di senno, è smarrito e deluso. Ha sacrificato tutto, ha rinunciato a sentimenti ed affetti pur di rendere grande il suo attore che, peraltro, è un uomo dominatore (all'inizio lo vediamo ordinare imperioso ad un treno che sta già partendo di fermarsi ed il treno si ferma), irascibile, scostante, aggressivo, vanitoso, spesso spietato, specialmente nei suoi confronti, quasi mai riconoscente, se non nei momenti di disperazione, sconforto e di totale abbandono e rassegnazione: "Tu non sarai mai pagato per quello che vali. In pectore io ti nomino mio amico. Ti sono tanto debitore." Norman con Sir ha finito con il costituire un tutt'uno indissolubile: i successi di Sir sono i suoi, l'uscita di scena di Sir coinciderebbe con la sua. E' commovente vedere come Norman si preoccupa e si agita nel vedere il suo attore confuso e disorientato, mentre si trucca da Otello quando in realtà deve recitare Re Lear; o quando con pazienza certosina gli ricorda ripetutamente le battute iniziali della tragedia, più volte dimenticate dall'attore; o quando, con fare materno, lo lava nella vasca o lo copre con una giacca mentre sta fuori dal teatro, in camicia, da solo nel bel mezzo di un gelido inverno inglese; o ancora quando, tutto esaltato ed eccitato, come un bambino di fronte ad un giocattolo nuovo, comunica agli altri attori che Sir sarà in scena più in forma che mai, perché "Re Riccardo è di nuovo se stesso"; o infine quando supplica, quasi disperato e piangente, Sir di fare il suo ingresso sul palco, perché il pubblico aspetta solo lui, per tributargli il giusto e dovuto onore. Norman, con la sua inseparabile bottiglietta di brandy e i curiosi ma efficaci aneddoti sui suoi amici, conforta e sostiene il suo attore quando si sta lasciando andare, accetta e subisce i suoi ingenerosi e a volte violenti scatti di rabbia, lo protegge e lo tutela nei molteplici momenti di smarrimento e follia, sa come ravviare ed esaltare il suo ego ("Siete di nuovo in teatro. Questa è la vostra casa. Ed è tutto esaurito. Dovranno stare in piedi in loggione!"). Peccato che si tratti di un amore, puramente platonico, nonostante le evidenti tendenze omosessuali di Norman, non corrisposto né tanto meno capito. O meglio di un'amicizia a senso unico. Per Sir, infatti, Norman è un necessario ed indispensabile punto di riferimento ("Norman voglio averti sempre vicino, non allontanarti mai!"), ma, ai suoi occhi, del tutto scontato, ovvio, assodato, pacifico. E' tutto dovuto quello che Norman fa per lui: nel suo borioso egocentrismo e nella sua delirante superbia non si accorge che senza Norman la sua carriera sarebbe già finita da un pezzo, come ben evidenzia l'episodio in cui in città si lascia andare ad una scena piuttosto imbarazzante tra la gente, suscitando le perplessità di una spettatrice che lo aveva ammirato in passato e candidamente confessa a Norman il suo dispiacere per il fatto che Sir abbia perso la salute. Yates che nello stesso anno aveva diretto anche il fantastico ed antitetico "Krull", a dimostrazione del suo eclettismo, grazie alla calibrata e preziosa sceneggiatura di Ronald Harwood (suoi, tra gli altri, gli script anche de "Il pianista" e "Oliver Twist" di Polansky, "Lo scafandro e la farfalla" di Julian Schnabel e "La diva Julia" di Istvàn Szabò, quest'ultimo a sua volta ambientato nel mondo del teatro), scandaglia un rapporto complesso e problematico con finezza ed intelligenza, avvalendosi anche delle superbe prove di Albert Finney, a tratti comunque un po’ gigione come del resto richiede la parte, ma soprattutto di un eccellente Tom Courtney, capace in più di un'occasione di rubare la scena al suo partner. Poi ci sono ovviamente anche il tema del rapporto servo/padrone, arte e vita, la descrizione della frenetica, confusa ed agitata vita di una compagnia teatrale che è quasi una famiglia ("Noi più che una compagnia ci sentiamo una grande famiglia e collaboriamo tutti quando è necessario" dice infatti Norman a Oxenby quando gli chiede di collaborare per ricreare la tempesta), l'ambientazione in tempo di guerra, siamo agli inizi del secondo conflitto mondiale, con tutte le relative difficoltà (allarmi, coprifuoco, gli attori in buona salute costretti ad andare sotto le armi, i teatri distrutti dalle bombe non appena sono stati prenotati, il capo comico che vaga per la città martoriata dai bombardamenti, invitando i poveracci ormai senza casa e senza famiglia ad andare in teatro per alleviare le loro pene), gran parte dei quali già visti e trattati nell'ottimo e di poco precedente "L'ultimo metro" di Truffaut. Ci sono anche una minuziosa, quasi maniacale attenzione per dettagli (per esempio il riferimento a certe superstizioni come il non pronunciare, prima dello spettacolo, la parola "Macbeth" perchè considerato un fattore di sfortuna), ambienti e caratteri, oltre al ritratto disincantato ed amaro, anche se non nuovo, di un attore dedito solo a se stesso. Sir infatti è un autentico gigante delle scene, dal talento travolgente, che nel teatro trova la sua unica casa, la linfa vitale ("la polvere del palcoscenico è la migliore medicina" infatti si dice nel film) perché "tutte le sere è una lotta" e deve "trascinare il mondo, l'intero universo", dal carisma che trasmette "potenza e mistero" (come dirà Irene, la giovane attrice entrata nel suo camerino) ma dal carattere tirannico, despota, intimidatorio e bastardo (uno degli attori della compagnia, Jeffrey, uscendo dal camerino di Sir che gli ha dato precise e rigorose indicazioni su come muoversi sul palco per non togliergli spazio e luce, afferma che preferirebbe affrontare le orde dei nazisti). Bello anche il personaggio di Madge, da 20 anni al seguito di Sir, di lui da sempre innamorata, la quale ha però dovuto accontentarsi, cercando di essere almeno utile al suo attore, perché "ho sempre saputo quali erano i miei limiti" e, alla fine di quella lunga esperienza insieme, si sente certo non felice, ma convinta che ne valesse la pena (emozionante l'episodio in cui Sir le fa dono di un prezioso anello). E' però grazie alla straordinaria e toccante figura di Norman (per certi versi ripresa poi dal maggiordomo Stevens, interpretato da Anthony Hopkins, nel riuscito "Quel che resta del giorno" di James Ivory) se "Il servo di scena" diventa un film capace di evitare, quasi sempre, sia le trappole del teatro filmato sia quelle del classico, elegante, prodotto inglese, perfetto ed accurato in tutti gli elementi, ma anche irrimediabilmente freddo ed accademico. Ne "Il servo di scena" si soffre e si partecipa al triste e tragico destino di un uomo che ha volontariamente abbandonato ogni aspirazione, rinunciando a vivere la sua vita per riflettersi nei successi e nella personalità del suo attore, salvo poi ritrovarsi irrimediabilmente solo, smarrito, abbandonato, tradito e dimenticato proprio da quell'attore delle cui fortune era stato il principale artefice e responsabile che però, nonostante il loro lunghissimo e confidenziale rapporto, non gli aveva nemmeno mai offerto da bere. C'è infine uno splendido dialogo che esprime al meglio quello che è il senso profondo del mestiere d'artista e d'attore in particolare, ed è affidato, ancora una volta, a Norman: "Non mi interessa se ci sono soltanto tre persone in platea o se il pubblico ride quando non deve e non lo fa quando dovrebbe. Uno spettatore, almeno uno spettatore so che è in grado di capire e io recito per lui." Adattamento dialoghi italiani a cura di Giorgio Piazza. Direttore del doppiaggio Manlio De Angelis che dà anche voce a Norman, mentre Albert Finney è doppiato da Sergio Fantoni. Prodotto da Peter Yates, Ronald Harwood e Nigel Wool. Tratto da una pièce teatrale dello stesso Ronald Harwood, basata sulle sue esperienze di servo di scena per il celebre attore shakespeariano Donald Wolfit. 5 nomination agli Oscar (Finney, Courtenay - entrambi battuti dal Robert Duvall di "Un tenero ringraziamento" - Yates, Harwood, film, tutti sconfitti nelle rispettive categorie dal trionfante "Voglia di tenerezza") e 7 nomination ai Bafta. Golden Globe a Tom Courtenay come miglior attore in un film drammatico ex aequo con Robert Duvall (altre quattro nomination a Finney, regia, film straniero e sceneggiatura). Orso d'argento a Finney come miglior attore al Festival di Berlino.
Voto: 7+
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