Regia di Agnès Varda vedi scheda film
In aperta campagna viene ritrovato il cadavere di una ragazza, morta evidentemente per il freddo gelido della notte. Il corpo si scopre essere quello di Monà (Sandrine Bonnaire), una vagabonda che girava libera per le campagne francesi. Una voce fuori campo ci porta a ripercorrere i giorni precedenti la morte della ragazza, a contatto con le ultime persone che le hanno parlato. Si cerca quindi di ricostruire le forme della sua triste esistenza. Tra questi ci sono la signora Landier (Macha Méril), una ricca signora che le offre ospitalità solo per potersene vantare come se fosse una specie di trofeo alla bontà ; un marocchino (Setti Ramdane), che gli offre aiuto disinteressato fino a quando non è costretto a scegliere a favore della sua incolumità ; un pastore di pecore (Sylvain berger), che gli chiede di aiutarlo nella gestione del suo piccolo gregge. Si scopre poco o nulla di lei, solo che faceva la dattilografa e che ha voluto fuggire da ogni forma di imposizione sociale. Vivere libera come il vento, senza ne tetto ne legge.
“Senza ne tetto ne legge” di Agnès Varda (Leone d’oro a Venezia) è un film dalla bellezza algida, sorretto da uno stile secco ed incisivo, capace di arrivare al cuore pulsante delle emozioni nonostante sia l’anaffettività una protagonista non dichiarata della storia. Varda segue una traccia fintamente documentaristica, muovendosi con la macchina da presa tra i resoconti spiccioli delle ultime persone che hanno incrociato la strada della ragazza. Di Monà non sappiamo niente, solo l’evidenza che è fuggita da una vita precedente per incamminarsi in un‘altra che non gli prospetta nulla di buono. A Varda interessa il suo fare vagabondo, la sua disordinata opposizione sociale, il suo andare in giro come una foglia al vento, trasportata laddove tira l’incrocio delle correnti. Monà consuma velocemente ogni incontro che gli capita di fare, in lei prevale sempre il distacco dal mondo piuttosto che rischiare di collezionare un’altra delusione per il fatto di rimanerne troppo tempo a contatto. Non vuol fare assolutamente niente, solo vivere respirando il momento, come gli capita, senza dover dipendere da qualsiasi forma di civile responsabilità.
La libertà assoluta praticata da Monà comporta di conseguenza una solitudine assoluta. Perché è radicale, e come tale è istintivamente portata a non accettare compromessi. Potrebbe accettare quelli di comodo, ma anche il rimanere tropo a lungo in compagnia di altre persone non rientra nel suo stile di vita, perché la convivenza produce per sua natura delle regole sullo stare insieme tacitamente accettate. Dove conduce questa forma di libertà così estrema ? Come è arrivata a confonderla con la totale assenza di responsabilità ? Le risposte ci vengono offerte da un pastore che gli ha offerto ospitalità senza ricevere in cambio il poco aiuto richiesto nella gestione delle sue pecore. Il pastore ha condiviso con Monà l’esperienza del vagabondaggio, prima di conoscere la donna che ha sposato e di aver messo su un piccolo gregge di pecore che gli fornisce il fabbisogno necessario per vivere. Poi ha visto fuggire la ragazza dopo che gli aveva offerto di procurarsi da vivere coltivando un piccolo appezzamento di terra. Questo gli darebbe i titoli per fargli dire che l’atteggiamento assolutamente “inutile di Monà finisce per fare il gioco di quella stessa società che lei rifiuta” con tanta ostinazione. Che “una cosa è errare, un’altra è aberrare”, ovvero, una cosa è assumere la responsabilità di scegliere come vivere, un’altra è non offrire alle scelte che si prendono altra alternativa che non sia quella dell’autodistruzione. Pur rimanendo nell’ambito di una rapida ricognizione sugli ultimi giorni della ragazza, il pastore è l’unico a cui Agnès Varda offre una caratterizzazione più delineata nelle sue implicazioni sociali. Tutti gli altri, o sono dei “cittadini” più o meno abbienti che l’avvicinano con l’atteggiamento che oscilla tra la pietà solo accennata e la riprovazione interessata, o dei “flaneurs” di strada, che come lei esercitano una forma impura di complicità che tende a migrare più nella reciproca diffidenza che nella comune solidarietà. Tutti questi sono mossi dal pregiudizio nei confronti di Monà ed è attraverso l’esercizio continuato del pregiudizio che sono costretti a comportarsi nei suoi confronti. Il pastore, invece, esprime un chiaro giudizio di valore sullo stile di vita di Monà, come conviene quando all’evidenza di scelte radicali si vuole accompagnare la percezione dei rischi che comportano.
Non è però importante definire se Agnès Varda abbia voluto attraverso il pastore veicolare il suo punto di vista in merito, è solo una parte del film e come tale va trattata. Ciò che è importante, invece, è lo stile usato per pedinare la ragazza durante gli ultimi giorni della sua povera esistenza. Le modalità sono quelle tipiche dellea ricerche d’inchiesta, con dei flash-back atemporali che portano alla costruzione di un film dall'andamento ondivago. Un film che nel mentre si mostra distaccatato rispetto all’oggetto della sua indagine, non manca di far sorgere quelle domande sulla marginalità sociale nate da un evidente coinvolgimento emotivo : da cosa è fuggita Monà ? Cosa l’ha spinta a fare della strada la sua fissa dimora ? Quanta effettiva libertà c’è dentro un distacco così radicale dalla società ? Domande che suonano come una discreta denuncia di sottofondo. Perché il cinema sa parlare per ellissi narrative, sa evocare significati prodotti dai fuori campo, anche quando è il qui ed ora ad essere esclusivamente catturato dalla macchina da presa. E così rimane questa implicita denuncia sociale, fuori campo, come un sussurro che aleggia sulle ingiustizie del mondo. Intanto che Agnès Varda appunta il suo sguardo indulgente su Monà, questa povera ragazza di cui non si sa nulla e del quale nulla interessa a chicchessia. All’inizio del film, Varda insinua che Monà sia potuta “nascere dal mare”, poi la sua parabola esistenziale si impregna dell’odore inespugnabile della morte. Che appare come la strada più probabile che il sofferto rifiuto della società degli uomini porta ad imboccare.
È sempre buona cosa ricordare per analogia film che si sono amati particolarmente e che sembra giusto mettere in evidenza quando se ne offre l’opportunità. Ecco, al cospetto di questa libera vagabonda, la mia mente si è ricordata dell’andamento ramingo di Stéphane de “Lo straniero pazzo”, un film del grande (e sottostimato) Tony Gatlif. Così come mi è impossibile non ricordare quel capolavoro di libro che è “Il sole dei morenti” di Jean-Claude Izzo, soprattutto per il modo umanista e mai caritatevole di tratteggiare il carattere di questi figli diseredati della “società civile”. Grande Cinema.
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