Regia di Agnès Varda vedi scheda film
Dramma di immagini, di silenzi o brevi dialoghi frettolosi, musiche graffianti e canzoni new wave, case luminose guardate dall’esterno, passando, e interni bui, degradati dove abitare qualche notte, Monà, la protagonista, è una presenza inquietante, lascia il segno e subito scompare.
“Un viaggio di Gulliver, un viaggio tra le donne, o meglio tra strani esseri tra la donna e il cavallo… “ da Italo Calvino lettore di Pavese: due lettere” di Ernesto Ferrero in Cesare Pavese, “Tra donne sole”, ed. Einaudi, 1998.
Questo il giudizio di Calvino sulle “donne sole” di Pavese. E concordiamo.
Oggi Calvino ci manca, vorremmo sapere cosa pensa di questa “donna sola” di Agnés Varda, una creatura totalmente filmica e tanto vera insieme, e Calvino di cinema s’intendeva non poco.
Monà (Sandrine Bonnaire) è una creazione puramente cinematografica, Varda le costruisce intorno un universo che della realtà ha solo quella che il cinema dà alle cose, implicando, inventando, dando parvenza di verità più di quanto non sappia.
E’ grande pòiesis, creare dal nulla.
Da dove viene Monà, la vagabonda sporca, unghie orlate di nero, che puzza, fuma spinelli e gauloise, cammina con zaino in spalla, stivali rotti che alla fine del film le si sfasciano addosso e una tenda sbrindellata di cotone sottile che non ripara da niente?
'' Mi è sembrato che venisse dal mare ''
E’ la voce di Varda in apertura, e poteva essere quella di Botticelli, cosa cambiava?
La prima sequenza è di un’aridità perversa.
Arido paesaggio invernale, una Francia del sud stopposa e fangosa, il cadavere congelato di Monà in un fosso, bluastro, impiastricciato della feccia di vino che le hanno tirato addosso i mostruosi deficienti del paese vicino, esemplari di quella feccia umana che si diverte così alle feste paesane.
I bravi e solerti gendarmi (anche la Francia ha i suoi) fanno quel che conta in questi casi, prendono le misure dello spazio (mistero a cosa serva farlo!), altezza e colore degli occhi, stilano il verbale, la chiudono in un sacco bianco.
Nessun documento, “dai fossi alla fossa”, così finisce la sua breve vita Monà.
E qui arriva il cinema a chiedersi chi era.
Tutto nasce dalla domanda: “Cosa ricordano di noi quelli che ci hanno conosciuto fin da quando eravamo bambini?”.
Una specie di esperimento di elaborazione mnestica, questi uomini e donne per cui Monà era e continuerà ad essere una sconosciuta ricordano di lei, ne possono parlare. Cosa colpisce e perché?
E, soprattutto, la vita che viviamo è in definitiva questo incontro/scontro di atomi che si staccano dal nostro corpo e rimbalzano sugli altri lasciando tracce più o meno evidenti? O è altro?
Magnifico éscamotage che toglie al film ogni sospetto di pietistica fotografia della solitudine umana tra la terra e il cielo, Sans toit ni loi, titolo inglese Vagabond, è un percorso a ritroso alla ricerca di tracce, scie di lumaca nello spazio di qualche chilometro, quello che può attraversare a piedi con gli stivali rotti e uno zaino in spalla una ragazza sola e senza speranze.
Quello spazio che attraversiamo tutti, capaci di farci illudere dalle belle favole della vita o semplicemente procedendo senza illusioni fino a “… colà dove la via/E dove il tanto affaticar fu volto:/Abisso orrido, immenso,/Ov'ei precipitando, il tutto oblia”.
Monà ha un viso largo, denti guasti, sguardo assorto. Ride una sola volta, quando beve qualche cognac di troppo con la vecchietta terribile, non chiede nulla che non serva alla pura sopravvivenza, non suscita empatia né vuol farlo, è assenza pura che però lancia segnali subliminali.
Varda ricostruisce i suoi incontri in un flashback di frammenti che mettono una dopo l’altra le persone che le hanno dato da mangiare e da bere, che hanno fatto sesso con lei o solo condiviso sigarette, magari un panino o un po’ d’acqua, nessuno però la conosce, nessuno sa il suo nome, si può anche vivere con gli altri restando perfetti sconosciuti.
Il film procede a metà fra l’inchiesta (a volte i personaggi rispondono a domande del gendarme) e il road movie, quello che ne esce è un ritratto di donna mai visto prima, accigliata e innocente, a tratti ironica e divertita, più spesso assente, chiusa in un bozzolo, fino alla fine, sofferente, spaventata.
Ma è un attimo, la morte soccorre pietosa e pareggia i conti con una vita a cui Monà non ha concesso nessun tributo, non c’è condivisione, intesa, contesa, ha scelto di essere libera o forse desiderava solo perdersi.
Da pochi indizi capiamo che era una segretaria e odiava i capi, nulla della famiglia, sola “senza passato né futuro” (e il famoso slogan sessantottino, tra i più belli, continuava “… la storia ci uccide”)
Monà incontra una galleria di persone, soprattutto uomini, di un campionario eterogeneo, nessuno che la trattenga più di un’ora o qualche giorno, tranne il tunisino con cui, forse, un legame umano poteva riaccendersi. “E’ buono con me”, dice.
Ma dura poco, Monà non ha un posto nella vita e il suo vagabondare senza scopo trascina verso la morte.
Le leggi naturali sono le uniche ad essere rispettate, la fame è fame, il freddo è invincibile, una tosse insistente è il primo segnale, la caduta nel fosso segna il limite tra la vita e la morte.
Vincitrice con Sans toit ni loi del Leone d’oro a Venezia nel 1985, Varda continua ad esplorare, superandoli, i confini del nuovo cinema, il nouveau roman è uno dei suoi terreni d’ispirazione, Nathalie Sarraute, a cui dedica il film, un’autrice prediletta.
Georges Sadoul, uno dei primi, entusiasti sostenitori della regista, ebbe ben ragione di dire del suo cinema: "Una visione altamente personale sia della gente che della vita, un sentimento per l'eterno dramma riflesso nella realtà più diretta”.
Dramma di immagini, di silenzi o brevi dialoghi frettolosi, musiche graffianti e canzoni new wave, case luminose guardate dall’esterno, passando, e interni bui, degradati dove abitare qualche notte, Monà è una presenza inquietante, lascia il segno e subito scompare.
'' Mi spaventa perché mi respinge '' dice qualcuno di lei, lo definirono femminismo questo sguardo tenero e severo della Varda, e molti non glielo perdonarono.
Eppure Monà è un essere innocuo, non chiede nulla, è il reagente che porta a galla tutte le contraddizioni, quelle degli altri.
La sua è coerenza pura, totale, assoluta. Perciò non poteva che morire.
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