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Senza tetto né legge

Regia di Agnès Varda vedi scheda film

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La recensione su Senza tetto né legge

di mck
9 stelle

Non mi piace lavorare (per voi).

 

 

Simone, detta Monà, "Sans Toit Ni Loi", di cognome Bergeron (o Vien dal Mare, ma senza Serbelloni-Mazzanti), un pugno d’anni in corpo, quattro stracci addosso e un certificato di nascita recuperato dall’idillio infantile e perso in qualche dislocazione, spende pochi sorrisi (a volte li condivide, altre li regala, e per la maggior parte li malripone, assieme all’appoggiar la testa sulla spalla di chi le caracolla al fianco, come qualsiasi cane, bastonato con una parvenza d’affetto, pone il muso ai piedi del padrone che gli ha poc’anzi mollato un calcio), la moneta che ha in tasca la ficca in un juke-box, il panino se lo fa regalare (“Giro, vedo gente, mi muovo, conosco, faccio delle cose” e dono il sangue in cambio di una mezza colazione) e passa direttamente dal fosso alla fossa, tra le brume sottozero dei vigneti a riposo, con ancora in faccia e sui panni logori tracce della feccia di vino che i provenzal-delfin-savoiardi krampus delle vendemmie franche d’oltr’alpe le hanno spalmato addosso come ultima inconsapevole unzione: né santa martire né rivoluzionaria eroica, dalla mediterranea Camargue alle vallate prealpine, risalendo in autostop il corso del Rodano, è ritratta e raccontata postuma...

 

(“Mi chiedo chi pensava ancora a lei avendola conosciuta da piccola. Ma la gente che incontrò si ricordava di lei.”)

 

...dalla sua biografa degli ultimi giorn’in vita, Agnès Varda (1928-2019), sceneggiatrice, produttrice (con la sua, e di Jacques Demy, Ciné-Tamaris), regista e co-montatrice (con Patricia Mazury), interrogando (per procura dei poliziotti spulciandone le testimonianze raccolte in situ e tramite ruberie onniscienti delle confessioni allo specchio ch’è la macchina da presa o catturando gl’intervenuti dialoghi fra le persone che ne hanno incrociato il lasco vagabondare: Macha Méril, la fitopatologa dei platani Yolande Moreau, una cameriera/badante, Marthe Jarnias, l’anziana accudita da quest’ultima, Stéphane Freiss, ingegnere agronomo e nipote di quest’ultima) chi anche solo per un breve periodo l’ha conosciuta poco prima della fine e immediatamente dopo, in questo perfettamente impersonata da una Sandrine Bonnaire semi-esordiente (dicottenne, proveniva da due Maurice Pialat - À Nos Amours e Police - ed era diretta verso Sous le Soleil de Satan, e poi il dittico su Giovanna D'Arco e Secret Défense di Rivette, due film con Chabrol - la Cérémonie e Au Cœur du Mensonge - e un paio di camei, uno per la stessa Varda di les Cent et Une Nuits de Simon Cinéma e uno per la Femme Fatale di De Palma, sino a l’Événement di Diwan, da Ernaux), che ne percepisce e restituisce l’intensa vividezza lacerandone la stolida opacità (“Se mamma Louise mi vedesse ora nella mia casa di ravanelli!”), sino agli ultimi singulti (Mouchette, Balthazar) sfumati a nero.

 


Non è l’erranza, è l’errore. Dando la prova [a chi, un vero filosofo laureatosi pastore, mesmerizzato dal regista, diegeticamente in quel mentre si sta rivolgendo: allo spettatore, al documentarista o alla propria coscienza, parlando per sé, e non per mano/bocca di chi l’ha creato e diretto; NdR] d’essere inutile fa il gioco d’un sistema che rifiuta. È l’errore, non l’erranza.

 


Fotografia (su pellicola Fuji da 35mm e in formato 1.66:1) di Patrick Blossier e musiche di Joanna Bruzdowicz (Variations sur la Vita).

 

 

Dedicato a Nathalie Sarraute, è stato restaurato trent’anni dopo, in 2k, a metà anni dieci, ed è attualmente presente nel catalogo MUBI

 

 

Pagine dedicate al film presenti su questo sito e che vale la pena leggere son quelle di @Yume, @SillyWalter e @Peppe Comune

 


Non mi piace lavorare (per voi). 

 

 

* * * * ½ - 9.00 

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