Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film
Un’opera se vogliamo anche pitagorica, per le corrispondenze che vi sono tra i nove capitoli che la compongono.
Solo nel primo e nell’ultimo capitolo, i personaggi compaiono tutti insieme (i tre attori denunciati per oscenità in un loro spettacolo, da una parte, e dall’altra il giudice che li ha convocati). Nei capitoli dispari, 3, 5, 7, ciascun attore viene interrogato dal giudice. Nei capitoli pari vengono ripresi o gli attori, ma in un dialogo a due, o il giudice in una confessione a un prete, rappresentato dallo stesso Bergman, che se ne sta in silenzio ad ascoltare. Nel primo capitolo gli attori sono gli inquisiti, nell’ultimo capitolo il giudice da inquisitore diventa l’inquisito.
Tutto si svolge in ambienti chiusi, a farla da padrona sono gli sguardi, i gesti, la mimica facciale, i dialoghi verbali, talvolta anche fitti e complessi. Nella prima scena, gli attori vengono convocati da un giudice, che ha il compito di analizzare l’oscenità di cui sono stati accusati per una loro rappresentazione. Ma di quale oscenità si sta parlando? Tutto appare in un alone arcano di mistero. Si allude al fatto, ma non viene mai descritto, nominato, si sa soltanto che gli attori sono accusati di aver compiuto una rappresentazione oscena, che offende il senso civico. Gli attori comici in questione, oltretutto, si fanno chiamare “I niente”, espressione già di per sé evocativa. Evocativa della finzione in cui consiste l’arte, ma finta fino a un certo punto, perché di fatto è tale da offendere la coscienza civica, che poi, detto in altri termini più crudi, meno urbani, è la coscienza morale. Dunque si tratta del sottile rapporto che l’arte mette in gioco tra finzione e realtà, e fino a che punto sia legittima la libertà di questo gioco, fino a che punto si possa parlare di autonomia e indipendenza dell’arte nella civiltà moderna.
I tre attori sono il capocomico Hans, sua moglie Thea, e l’amante Sebastian (della moglie di Hans). Anche questa triangolazione sembra essere del tutto assurda; come è possibile che questi attori siano legati tra di loro al punto da mettere a repentaglio i loro stessi affetti? Ciò lo si inizia a comprendere un po’ nella seconda scena, ripresa in una camera d’albergo, dove Thea e Sebastian parlano tra di loro, del loro affetto incrinato, ma il tutto in un guazzabuglio ordinato di sentimenti ambivalenti: la gelosia di Thea nei confronti di un’altra donna, la sdrammatizzazione di Sebastian, il loro baciarsi e accarezzarsi, inframmezzato da momenti di inquietudine, che lasciano intravedere che si tratta non solo di un rapporto estraniato, ma prossimo alla dissoluzione. Non a caso Sebastian viene giudicato da Thea incapace di soddisfarla sessualmente, e che forse è meglio il proprio marito. Si può, dunque, comprendere una triangolazione che si accetta come tale, ma qui abbiamo a che fare con una triangolazione non affatto armonica, con le sue rivalità e opacità, tant’è che la scena si conclude con Sebastian, che, lasciato solo nella stanza, inizia a spargere fiammiferi accesi sul letto, come volesse morire nel fuoco. Quest’idea del fuoco purificatorio ricorre spesso in Bergman, e in questo caso Sebastian immagina una fantasia del genere, fantasia che però viene ripresa con un crudo realismo, da lasciare interdetto lo spettatore .
Nella scena numero tre, proprio Sebastian viene interrogato dal giudice, che gli fa presente i suoi precedenti. In un modo del tutto surreale e psicologicamente violento, Sebastian si rivolta contro il giudice, accusandolo di falsità, di sporcizia morale, di fetore cadaverico. Come se non bastasse, l’attore, in un attacco in stile stirneriano, afferma di non temere nessuno, perché non c’è niente al di sopra, niente che possa fermare il suo proprio se stesso. E’ caduto per sempre il Dio cristiano, e il giudice di fronte a tanta veemenza cerca di attenuare, di atteggiarsi civicamente nel comprendere lo stato d’animo dell’indagato, invitandolo di andarsene, perché di fronte alla violenza soffre di cedimento della volontà.
Come contrappunto a questa scena, quella successiva presenta il giudice in un confessionale, nel quale esprime al prete tutta la sua propria angoscia, perché avverte la propria solitudine, nonostante gli uomini sappiano stringersi in cerchio, consolarsi… Come effetto del dialogo precedente avuto con l’attore Sebastian, sembra che il giudice sia assalito da un’angoscia nichilista, per l’assenza di un Dio a tutela della legge. E proprio per questa angoscia regredisce nei suoi ricordi di infanzia, quando durante la notte temeva della distanza fisica dai genitori.
Nella quarta scena ritroviamo il giudice nella sua forma incorruttibile, che riprende l’interrogatorio con il capocomico Hans. Hans a differenza di Sebastian appare più disponibile, ma piano piano anche qui il dialogo prende pieghe oscure, perché il giudice non accetta la richiesta di Hans di non interrogare la moglie per via della sua ipersensibilità. Thea infatti è suggestionabile, e potrebbe fare cose imprevedibili, addirittura fare qualunque cosa le venga richiesto, perciò, anche sotto quest’aspetto, non è un test attendibile. Ma il giudice vuole sapere tutto, vuole scavare nella vita di questi artisti, evidenziare le origine di quella rappresentazione oscena, e così piano piano vediamo la stessa arte essere messa sotto assedio, per la sua meschinità, la sua finzione, le sue illusioni pericolose.
Tutto questo processo paradigmatico di distruzione dell’arte viene infatti rappresentato nella scena n. 7, dove Thea, dopo essere stata rassicurata nella scena n. 6 dal suo proprio marito, viene interrogata dal giudice, ma in un modo vertiginoso la gentilezza iniziale dell’indagatore diventa sempre più analitca, fino a trasformarsi in una vera condanna della donna, la quale viene rimproverata di essere falsa, di fingere i propri disturbi mentali, fino al punto di essere fisicamente violentata dal giudice, il quale, così facendo, si abbandona alle sue pulsioni più bieche. Mentre sopraggiunge il marito dopo l’attacco isterico di Thea, il giudice, facendo finta di niente, rientra nel suo ruolo e chiama l’ambulanza, e costringe i coniugi ad andare in ospedale scortati.
Nella scena 8 il dialogo è ora tra Hans e Sebastian. Ormai la compagnia teatrale è in crisi di ingaggio, e Hans non ha più voglia di continuare in quella triangolazione infernale, se ne vuole andare, abbandonare il suo amico collega e la moglie, anzi consiglia l’amico su come soddisfare la propria moglie sessualmente. Anche in questa dinamica emerge tra i tre una relazione disfatta, arrivata al capolinea, in cui non c’è più niente, niente da condividere. Si ha la desertificazione dell’anima.
L’arte che nei confronti del giudice si rivela nella sua potenza seduttrice e di perturbamento, a sua volta per se stessa si risolve in un’assenza di fondamento. Ma allora perché non lasciare l’arte al suo destino, non lasciarla libera di morire, ma osteggiarla in nome della legge? Il quadro si completa con l’ultima scena. Il giudice ha fatto in modo che venga rappresentata nella stanza dell’interrogatorio, a porte chiuse, la scena oscena. Finalmente anche noi sappiamo in che cosa essa consiste. È nient’altro che la riproposizione di un rito dionisiaco, ma il giudice ne rimane sconcertato. Gli sembra di comprendere qualcosa che va al di là delle sue possibilità, qualcosa che lo trasforma da indagatore a indagato, da carnefice a vittima, e quasi in uno stato ipnotico tira fuori tutto il suo desiderio nascosto, che non era quello di fare il giudice, ma di indagare sull’esistenza degli artisti, sul senso dell’arte, perché in fondo ha sempre saputo di non essere degno dell’arte, e voleva in qualche modo distruggerla. Ma quella rappresentazione oscena, in tutta la sua ritualità ancestrale, finisce per soggiogare il giudice, che fatalmente muore di infarto.
In quest’opera non si salva nessuno. Tutto va a fondo. L’arte stessa è condannata a morire nella sua libertà, perché la libertà non è altro che l’assenza di fondamento, provocata e occultata dal rigore delle procedure della legge, procedure burocratiche che, di fronte all’arte stessa morente, non sono altro che l’inutile e rinnovato rito coercitivo, autoreferenziale, ma che a differenza dell’arte non sono neanche consapevoli della loro finzione.
Bergman qui difende l’arte a spada tratta, forse come unico possibile spiraglio per un’umanità cieca, che non sa di affondare nella gabbia di ferro della modernità.
Questo film merita di essere indagata più a fondo. Perchè il film visto nella sua globalità comprende nodi tematici intricati, complessi, forse un pò troppo condensati, dato che è stato programmato per la fruizione televisiva. Per ridire il già detto, in maniera più sintetica a rischio di essere troppo didascalico (in realtà anche per fare un pò di chiarezza in me stesso), posso dire che le tematiche intrecciate sono le seguenti:
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