Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film
Opera minore ma certamente non secondaria all’interno di un percorso davvero prodigioso che pone Bergman fra gli indiscussi geni della settima arte che hanno fruttuosamente attraversato con lo splendore e la problematica delle loro opere che restano ancora ora oggi imprescindibili punti di riferimento per chi ama davvero il cinema.
In effetti si tratta di un film girato per la televisione (e in qualche modo si avverte il “limite”, certamente imposto dal mezzo a cui era destinato, proprio in quello che può sembrare un eccessivo didascalismo derivante anche dalla sovrabbondanza dei dialoghi). Si tratta in pratica di una forma indiretta di “teatro da camera” totalmente ambientato in interni spesso claustrofobici, che privilegia l’utilizzo dei primi piani e soprattutto – come già accennato - quello della parola che spesso ha il sopravvento, tutti elementi che “denunciano” proprio la finalizzazione dello stile alle dimensioni del piccolo schermo, ma che in ogni caso inficiano solo marginalmente il risultato di un’opera comunque densa e problematica, implacabile e attenta, come tutto il miglior cinema di questo regista, che questa volta ha nei contenuti, più che nelle immagini (e quindi anche nelle “parole”), il suo valore aggiunto proprio perché finalizza la ragione prioritaria della sua creazione, alla necessità dell’introspezione scarnificata, condotta con la qualità dell’eccellenza, che si insinua e prende vigore attraverso una analisi anche comportamentale se possibile ancora più spietata e provocatoria del solito che non può prescindere dai dialoghi, destinata a mettere davvero a nudo il cosiddetto “fango delle anime”, stigmatizzando nel contempo le condotte disturbanti e non del tutto ortodosse che determinano queste “dolorose” cadute” oltre il “consentito”. La storia è molto semplice nella sua evoluzione, molto “strindberghiana” direi, un match trascinante raccontato senza pudori o reticenze: quelli che contano, più che gli eventi, sono i coinvolgimenti e le implicazioni morali che ne derivano e che vanno ben oltre il rappresentato. Si narra infatti di tre attori – due uomini e una donna – che, imputati per la realizzazione di uno spettacolo osceno, vengono interrogati (o per meglio dire, “spogliati”, sviscerati e contrapposti) da un giudice che rimarrà così sconvolto da quella rivisitazione visualizzata dell’azione scenica incriminata, da perdere a sua volta la dimensione del “senso del pudore” fino a tirare fuori i suoi “demoni nascosti”, arrivando persino a violentare l’attrice un po’ ninfomane, con un “atto materiale” che va ben oltre la “finzione”, per poi morire fulminato da un imprevisto quanto improvviso e “catartico” infarto. Si potrà rilevare quindi una volta di più, l’importanza prioritaria non solo del “significato della parabola”, ma anche della maniera con la quale viene esposta la “tesi” (non a caso sono “attori” e non semplici personaggi comuni i protagonisti del dramma, così da evidenziare ulteriormente la “natura stregonesca” - o meglio “l’illusione del reale” - più volte enunciata dal suo cinema - e qui esasperata alla massima potenza - raffigurata non solo dal teatro, ma da ogni espressione artistica che si esprime attraverso la via indiretta della “interpretazione”, che da sempre rende “il tramite”, un enigmatico “strumento di magia”, il “mezzo” necessario per la materializzazione del “rito” di quella rappresentazione mediata che sublima l’arte. E Bergman sa davvero di che cosa intende parlare, essendo a sua volta eccellente uomo di teatro, un regista che sempre e comunque, qualunque strumento utilizzi, “sa” come scavare e dove farlo per ritrovare i “succhi” e le radici dell’essenza, come ben potrà testimoniare chi ha avuto il privilegio – ed io sono fra questi – di verificare il suo lavoro anche sulle assi del palcoscenico, quando in anni più felici e attenti per la nostra cultura da troppo tempo allo sbando, era molto più “facile” e naturale di adesso imbattersi anche in Italia (prima fra tutte, la Rassegna Internazionale dei Teatri Stabili che si teneva annualmente a Firenze) nelle produzioni internazionali di alto prestigio come le sue, sia che rappresentasse più classicamente testi canonici di autori a lui particolarmente “conformi” come appunto Strindberg o Ibsen, o si cimentasse in ardite e provocatorie riletture shakespiriane (quali il suo folgorante Amleto) capaci di gettare nuova luce non solo sui personaggi, ma anche sulle conflittualità interne dei rapporti e delle “attrazioni”, in quei grovigli attorcigliati pieni di angosciose “anomalie” così cari al Bardo. E anche questa volta, sotto il profilo della “realizzazione scenica”, non perde un colpo: il balletto implacabile è condotto con la consueta coerenza inflessibile alla quale ci ha da sempre abituati, quella mostruosa capacità di trasformare un “accadimento scabrosamente banale” qui condotto nel chiuso amorfo di un ottuso interno - e quindi tutto sommato “privato” - in un gioco (una “danza di morte”) universalizzabile di altissima intensità emotiva, nobilitato dal rigore perentorio di uno sguardo severo e poco conciliante che riesce a trasportare l’avvenimento, il “dramma”, dal crudo terreno del realismo che lo comprimerebbe alquanto, a una zona quasi metafisica, densa di mistero, intrisa di implicazioni intimamente occulte, che lo assolutizza. Questo, in virtù della purezza dell’immagine e della qualità del confronto verbale, per altro supportati dall’eccellente contributo di un quartetto di attori di spaventosa e inarrivabile bravura composto da Ingrid Thulin, Gunnar Björnstrand , Anders Ek e Erik Hell, simboli e “maschere” di un delirio dei sensi che si estrinseca attraverso una progressione lucidamente parossistica che non concede tregua né respiro. L’andamento quasi musicale dell’insieme (una sorta di “concerto” dai suoni gravi e tesi) è proprio per questo ancor più accentuato da uno “scontro frontale” a 4 voci (o tonalità) che, in perfetta e assoluta sintonia con l’autore, mente in gioco le assonanze delle ambiguità comportamentali concedendo molto di più della semplice tecnica, qualcosa di così interiorizzato e personale, da renderli complici consapevoli di quel meticoloso lavoro finalizzato ad estrarre dalla evidente “anomala” isteria dell’assunto che ha persino le caratteristiche della perversità quasi grottesca del “paradosso”, la dimensione quasi sacrale di una idea sgradevolmente aspra e carnale dell’esistenza, che diventa a sua volta una esternazione elogiativa della creazione artistica tout court che ha sempre la capacità (e il privilegio) di inquietare le anime, ma al tempo stesso di dare loro un implicito e necessario conforto. In questo contesto, assume a mio avviso particolare rilevanza proprio la discutibile figura del giudice, “inquisitore e vittima” allo stesso tempo, che alla fine, proprio per questo coinvolgimento che lo fa passare da testimone giudicante a “parte direttamente in causa”, diventerà colui che in qualche modo consentirà l’emissione di un indiretto verdetto di assoluzione per il presunto misfatto. Ed infatti, al di là di quella che potrebbe apparire la definitiva e specifica peculiarità dell’opera, Bergman sembra voler denunciare anche qualcosa che va oltre, e più precisamente l’assurdità e il pericolo (sempre e comunque intrinsecamente connesso) di sottoporre un’opera creativa – qualunque opera creativa – al verdetto e al vaglio non solo di un ente “censorio”, ma anche della magistratura inquirente e giudicante, un implicito riconoscimento (o una denuncia) della irrinunciabile necessità di porre l’arte davvero al di sopra delle parti e dei giudizi etici, attribuendole conseguentemente l’inalienabile diritto (e il dovere) di superare alla bisogna, anche i codici di quei comportamenti allineati e conformi, imposti dalla società. La rivendicazione dunque, anche al di là della “morale corrente”, della totale e sacrosanta libertà dell’espressione artistica che solo così sarà messa nella condizione di svolgere davvero il suo ruolo spesso simile a quello della “cartina di tornasole” rivelatrice non solo di un disagio esistenziale, ma anche di verità nascoste e inconfessate. Ogni intervento in contrasto con questo principio, qualsiasi “limitazione” programmata sulla base di codici e pregiudizi, a qualunque titolo espressa, non potrebbe che tradursi in una inevitabile (e pericolosa) conferma delle ipocrisie delle regole sociali (e anche sotto questo profilo Bergman aveva spesso dovuto pagare di persona, soprattutto con le inenarrabili controversie legate all’uscita de “Il silenzio”). La fotografia di Sven Nyksvist, densamente contrastata, piena di luci taglienti e di ombre inquietanti, di penombre paurose e di “squarci” dionisiaci, è ancora una volta un elemento essenziale e prioritario per la riuscita dell’impresa, un contributo impeccabile e meticoloso che esalta la rappresentazione plastica delle figurine che animano la storia, all’interno di questa singolare, angosciante liturgia arcaicamente occulta. Opera minore dunque, ma certamente non “secondaria” all’interno di un percorso davvero prodigioso che pone Bergman fra gli indiscussi geni della settima arte che hanno fruttuosamente attraversato con lo splendore e la problematica delle loro opere - ancora oggi imprescindibili punti di riferimento per ogni possibile successiva evoluzione - tutta la seconda metà del secolo scorso.
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