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Renaldo e Clara

Regia di Bob Dylan vedi scheda film

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La recensione su Renaldo e Clara

di (spopola) 1726792
6 stelle

Come sempre di fronte a "versioni" fortemente mutilate come quella distribuita in Italia (ridotta di oltre un'ora rispetto al metraggio originale di 3 ore e 52 minuti) è problematico esprimere un giudizio, poichè non ci stiamo confrontando con l'opera, così come era stata concepita. Si può semplicemente tentare di "valutare" ciò che resta (o che ci è stato "concesso" di vedere) raffrontandolo a quello che sappiamo in relazioni al progetto e alle intenzioni, anche se in questo caso la cosa è particolarmente complessa, non esistendo un copione vero e proprio come punto di riferimento. Il film è infatti la fantastica cronaca (potremmo definirlo un poema celebrativo del proprio mito) della tournee effettuata dalla coppia Bob Dylan-Joan Baez attraverso i vari stati dell'Unione, fra il 1975 e il 1976 (il tour si chiamava "The Rolling Thunder Rewiew"), frutto (e selezione) di un immane quantitativo di materiale audiovisivo (oltre 400 ore di girato). Proprio la sua particolare forma fortemente onirica, rende ancora più complesso valutare il "moncone" che ci è arrivato, poichè resta difficile l'orientamento (e quasi impossibile rimanere agganciati con coerenza al filo del discorso che si dipana) in questo crogiolo di divagazioni e "spostamenti" quasi surreali dei dialoghi (ma non solo, poichè le eccentricità di contorno sono in questo caso particolarmente accentuate). Non il consueto film-concerto insomma, poichè qui il "palcoscenico", le esecuzioni "live", sono solo una parte del discorso: ampio spazio è riservato anche non soltanto ai retroscena del "dietro le quinte", ma anche allo spazio prove , agli interventi "reattivi" del pubblico, oltre che aglii spostament "on the road" fra le varie località, (persino i frammenti di una inchiesta-studio sulle minoranze ci troviamo inseriti dentro!). La volgia e l'intento sono dunque quelli (di Dylan, intendo) di "raccontarsi" anche - e soprattutto - sul versante privato (quasi un narcisistico gioco di rimandi tutt'altro che "velata", che mette in scena il "rapporto privilegiato" del periodo - la storia d'amore - con la Baez) e tutto ciò che ne consegue, artisticamente e "privatamente". Ciò che si desume da "quel che resta", è allora proprio il fatto che la presenza della Baez nella vita di Dylan è stata molto importante sotto ogni di vista in un momento particolarmente difficile - di svolta - nella vita del poeta/cantautore (la crisi con la moglie Sarah in primis). Il tutto però è riaccontato in maniera reticente e fortemente allusiva, persino con la mediazione un pò ipocrita di assegnare nomi fittizi e di "comodo" ai personaggi (Renaldo e Clara, appunto) e a crearne dei "doppi" affidati alla coppiaHawkins/Blakeky. Un pò troppo pretenzioso (e a volte persino irritante) - ed è ancora un'ompressione riferita a ciò che ho visto, non a quello che ha inteso fare l'autore - è una frenetica girandola di immagini riprese spesso con la cinepresa a spalla, seguendo gli stilemi avanguardistici del periodo (ci si potrebbe trovare persino qualcosa "alla Warhol"). Un pò prolisso e a volte fastidiosamente "simbolico" nelle imamgini, è sopratuttto straordinario sotto il profilo strettamente musicale. Da segnalare lo straordinario contributo di Allen Ginsberg che emerge prepotente non solo quando gli capita di cantare o di ballare, ma anche quando semplicemente si trova a camminare accanto alla tomba di Kerouac. Oltre a Dylan e la Baez sono "presenze vive e palpitanti" Sarah Dylan (Clara), i già citati Ronee Blakley e Ronnie Hawkins, Sam Shepard, Harry Dean Syìtanton, Arlo Guthrie e Joni Mitchell.

Sulla trama

"Ho fatto Renaldo and Clara per un gruppo di persone molto preciso e per me stesso, così come ho scritto Blowin' in the wind e The times are a-changin'. Tutto qui. Il mio film parla soprattutto dell'identità, dell'dentità di ciascuno. Mette a nudo l'alienazione dell'io interiore in rapporto all'io esteriore, alienazione portata all'estremo. Parla anche dell'integrità, del fatto che bisogna essere fedeli al proprio subconscio, al proprio inconscio, al 'superinconscio' e al proprio conscio. L'integrità è uno degli aspetti dell'onestà. E questa è legata alla conoscenza di sé.
                       (Bob Dylan)
"La modesta filosofia non impedisce che il film di Dylan, malgrado la lunghezza e il disordine delle immagini, abbia una qualità che manca a tanti altri visti finora: è contemporaneo ed emozionante, non solo per chi ama la musica di questi anni e in particolare del più celebre cantante folk degli Stati Uniti... Dylan racconta, oggi, i sentimenti di una generazione, la sua: quella che ha vissuto nei primi anni '60 nei locali di New York, dove si faceva poesia e musica, diventata poi la generazione dei diritti civili, antirazzista e anti-Vietnam, cancellata e poi ritrovata, adesso più fragile e rassegnata...
Timido e sfuggente, il cantante attraversa il film con la sua faccia lunga e troste, dipinta di bianco come quella di un clown, il grande cappello coi fiori, le collane, il gilet, le sciarpe, gli occhiali neri, la chitarra e l'armonica a bocca: un sopravvissuto, come lui dice di sé, di una generazione i cui simboli sono scomparsi, le cui attese sono andate perdute."
         (Natalia Aspesi - La Repubblica - 23 Maggio 1978)

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