Regia di Roman Polanski vedi scheda film
Un film agghiacciante.
Bellissima, ma con una voragine interiore di cui è impossibile scorgere il fondo. Nella distanza fra l’apparire e l’essere della protagonista Carol si colloca Repulsion, opera raggelante, diretta, morbosa, terrificante. Il film si presenta inizialmente con una confezione molto Nouvelle Vague, sia per argomenti sia per messa in scena: abbiamo Carol, una giovane donna molto riservata con un lavoro normalissimo come manicure, un uomo che le fa una corte dolce e spietata, una sorella più liberale che esce con un uomo ammogliato, la vita che scorre priva di picchi sotto l’occhio della macchina da presa. Nella prima fase Carol suscita finanche simpatia, se non tenerezza, per la sua ritrosia verso l’uomo in quanto estraneo, parte di un processo di crescita che ancora non sente di voler affrontare. La vediamo scrutare spesso dalla finestra l’attiguo cortile del convento dove le suore giocano e si divertono, forse macerando un’aspirazione latente verso un modello di castità gioconda. Carol rifugge lo sguardo della macchina da presa: sembra quasi che si dilegui dal quadro in certe occasioni in cui si accorge di esserne osservata, come se anche l’osservatore costituisse una minaccia per l’integrità del suo corpo, analoga agli incubi che popolano talora le sue notti. Timidezza, stravaganza, insicurezza; Repulsion, portando alla luce innocui tratti della personalità di Carol, non è granché diverso nella sua prima parte da alcuni film di introspezione della psiche e dei rapporti umani che andavano in voga in quegli anni.
Quando la sorella di Carol parte per una vacanza in Italia, lo spartito muta. La riservatezza si fa solitudine, il rifiuto dell’uomo diventa psicosi, I movimenti di macchina si fanno sempre più lenti, i rumori di fondo – i ronzii delle mosche, il ticchettio dell’orologio - sempre più ripetitivi e ipnotici, quasi senza rendercene conto sprofondiamo nell’abisso di una donna malata. Sono giorni di incoscienza che per certi versi possono richiamare il wilderiano The Lost Weekend. Anche in quel caso si assisteva una discesa implacabile, verso i più insondabili buchi neri dell’animo umano, generata dall’abbandono delle persone più prossime. Film dove ogni inquadratura, anche dell’oggetto più insignificante, di un piatto, di una bottiglia, di un occhio diventa sorgente della più vischiosa inquietudine. Tuttavia, se nell’opera di Wilder la discesa agli inferi prelude in maniera quasi salvifica e purificatrice ad un riscatto finale, in Repulsion è prodromica alla dannazione, al punto di non ritorno.
C’è quindi un terzo momento nel film di Polanski, in corrispondenza della calata dell’irreparabile, dell’irrevocabilità della morte. L’immobilità della scena della fase precedemte, con le sue minuzie immutabili e tanto più spaventosi quanto più immutabili, fa posto ad un incubo insaziabile e perenne che ghermisce nella sua morsa la mente perduta della giovane donna. Un incubo a cui Carol si consegna, a questo punto, quasi con piacere, senza più pudori residui: gli ultimi avamposti del suo essere sono caduti, di lei non rimane che un guscio vuoto. Carol attraversa in un certo senso la linea di separazione fra il noir e l’horror: il noir è un guardare alla porta spalancata sul baratro, un costeggiarla, un vezzeggiarla senza però mai spingersi a varcarla; l’horror è la caduta, l’abbandono pieno e totale.
Quel che è più sorprendente, è che un film che non aveva minimamente i caratteri tipologici né del noir né tanto meno dell’horror, costringe lo spettatore ad affrontare un viaggio all’inferno di sola andata imprevisto, probabilmente inedito, uno dei più raccapriccianti della storia del cinema.
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