Regia di Roman Polanski vedi scheda film
La repulsione è una solitudine terrificante, che desidera disperatamente l’amore mentre atrocemente lo teme. Roman Polanski, in questo suo secondo lungometraggio, riesce a convertire la paura in una presenza palpabile che si incolla alla pelle, in un brivido che si materializza in rumori e visioni, pur inserendosi perfettamente nella verosimiglianza della storia. Questa abilità, che preannuncia lo spirito di Rosemary’s Baby, fa sì che l’horror non sia un elemento alieno, sovrapposto al racconto come un effetto speciale applicato a un fotogramma, bensì faccia parte della stessa sostanza della storia, al punto da diventarne la componente più percepibile e concreta. Come nel citato capolavoro del 1968 - che segue questo film di soli tre anni – l’incubo risiede apparentemente fuori, intorno alla protagonista, perché il mostro alberga, in realtà, dentro di lei. La scena cinematografica si impregna, così, della proiezione mentale del personaggio che la sta vivendo: i suoi pensieri, che irradiano l’ambiente, impressionano la pellicola non meno della luce che si posa sugli oggetti. A questo processo partecipano, a pieno titolo, anche i sogni: infatti questi, nel momento in cui si manifestano, sono esperienze vissute con anima e corpo, e tali sono destinati a rimanere per una psiche disturbata che non sia in grado di ricollocarli, al risveglio, nella dimensione della mera fantasia. La carne di coniglio che, dimenticata fuori dal frigo, lentamente imputridisce, e le patate che, giorno dopo giorno, germogliano sul piatto, sono le rappresentazioni sensibili di una progressiva degenerazione interiore, che cova nell’intimo, e ancora non è esplosa: nel frattempo esercita una pressione sempre più forte, come indicato inizialmente dalle crepe, e poi dai veri e propri squarci, che Carol vede aprirsi nei muri del suo appartamento. Vista dall’esterno, la situazione della donna è raffigurabile come una prigionia innaturale ed autoimposta, dentro una nicchia che sta per infrangersi: il mondo preme infatti per entrare in quel guscio, nella veste dell’immaginario sconosciuto che la aggredisce nel letto, o dell’amico che sfonda la porta per soccorrerla. La follia di Carol la induce a considerare ogni tentativo di umano avvicinamento come un attacco alla propria integrità fisica: l’affetto di un uomo è, ai suoi occhi, il preludio allo stupro, e gli odori “maschili” - che crede di avvertire sugli accessori usati dal fidanzato della sorella - ne sono, per lei, la rivoltante traccia fisiologica. La sua vita sociale è tenuta in ostaggio da un atteggiamento di perenne ed estrema autodifesa, che è la risposta alla sua ansia nei confronti di una possibile intrusione: e tanti sono i simboli sessuali che la insidiano, che sembrano voler alimentare la sua ossessione, dalla cartolina con la torre di Pisa che il postino le infila sotto l’uscio, allo spioncino che inquadra il penetrante sguardo di un visitatore inatteso. Intanto, in sottofondo, la campana del vicino convento di monache suona come un richiamo alla verginità, e un severo monito rivolto a chi la minaccia. La parabola della pazzia di Carol è, nello stesso tempo, di carattere diabolico e di origine divina, perché il sangue che la donna, nella spirale della sua furia, sparge sempre più copioso, è quello purificatore della vittima sacrificale, immolata per cancellare il peccato e scongiurare la dannazione. L’isolamento di Carol finisce col diventare un tempio esclusivo ed ermetico, in cui lei opera da sacerdotessa di una muta religione dell’azione: il suo silenzio è il suggello di un universo che vuole essere interamente suo, incomunicabile agli altri, e nel quale, quindi, le parole sono assolutamente inutili (come quelle trasparenti che Carol “scrive” sul vetro di una finestra).
La drammatica vicenda personale narrata in un questo film è un tragico crescendo che non risolve nulla, che non prevede né la caduta, né la catarsi, perché – come spesso accade, nel cinema di Roman Polanski - semplicemente, termina nel vuoto. Magistrale, nell’ultima sequenza, è la trasposizione scenica della “normalità” che, sotto forma di persone e cose, irrompe, imbelle e sbigottita, in un quadro ormai completamente devastato.
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