Regia di Jean Renoir vedi scheda film
La catalogazione per generi, al cinema, è sempre (stata) un problema. Commedia, dramma, tragedia (o tragicommedia), molti se ne sono inventati tantissimi per spiegare tutte le infinite sfaccettature che la Settima Arte ha saputo generare. Già un film che si fa catalogare toglie metà del beneficio del dubbio, di quel sacrosanto diritto dello spettatore, non avere necessariamente facili risposte da una pellicola che voglia dirsi profonda (o profondamente artistica). Niente snobismi intellettuali, solo la constatazione necessaria per cui dire “di genere” rischia di essere un limite, o motivo di giustificative contestualizzazioni.
Comunque sia, mai come per La règle du jeu può essere un problema andare a definire un genere. Renoir spazia da un tono canzonatorio a un tono intimistico, fino a sfiorare il grottesco, realizzando un caleidoscopio graffiante e assurdo sui rapporti fra gli esseri umani, azzardando la tragedia, sfrontato con certe maniere slapstick, fino alle evidenti metafore di uomini come animali a cui viene data la caccia.
La règle du jeu possiede uno sguardo analitico che ha influenzato tanti, tantissimi registi, uno sguardo in grado di contenere la coralità in poche secche inquadrature e di associare a certi cambi di inquadratura improvvisi un sottotesto ironico e/o umoristico riguardante ciò che si sta vedendo. Già questo è evidente a partire dalle prime immagini, quelle in cui André Jurieu deve atterrare con il suo aereo dopo la traversata dell’Oceano, fatta con lo sprezzo del pericolo per amore di una donna, Christine, da cui, probabilmente, non viene ricambiato, e dal canto suo sposata con un altro signorotto abbastanza spocchioso e adultero, innamorato della moglie e stanco di un’amante che insiste per averlo tutto per sé.
(Già la prima sequenza è immersione e movimento nel caos: il volto della giornalista (1) si disperde nella folla in attesa dell'atterraggio di Jurieu.)
Questa girandola di personaggi si ritrova nella casa in campagna dei de la Chesnaye, la famiglia del marito di Christine, per andare a caccia e per uno spettacolo che loro e un’altra serie di amici della loro stretta cerchia aristocratica organizzano.
La trama contorta si complica ulteriormente con l’entrata in scena della governante di Christine, Lisette, che minaccia di tradire il marito per un cacciatore assunto da de la Chesnaye.
(La sequenza del flirt fra Lisette e l'ex-cacciatore è un momento in cui, con semplici gesti e naturalissimi movimenti, Renoir riesce a far convivere sarcasmo, ironia, spontaneità ed erotismo, anche nel presentarsi improvviso di perturbate simmetrie.)
Renoir però mantiene un rigore invidiabile, il che rende il film mastodontico, impeccabile, un vero pastiche in cui nessuno si salva, e il concetto di sentimento e di affetto reciproco entra in un circolo vizioso che rivela il carattere più profondamente contraddittorio dei rapporti umani. Il tutto è facilmente evidente a partire dal personaggio di Christine, che lascia intendere ad almeno tre uomini diversi di essere innamorata di loro, non tanto per lascivia ma per puro smarrimento. L’ironia pungente non salva nessun personaggio, ma nemmeno condanna. Lo sguardo di Renoir è, come si è detto, analitico, e profondamente attento alla gestione dei tempi e degli spazi, alle battute che incalzano senza che lo spettatore possa minimamente distogliere l’attenzione, alle dinamiche che concretamente muovono i personaggi sulla scena (un esempio per tutti, il piano sequenza in cui i vari invitati si dànno la buonanotte, un grandioso pezzo di cinema).
(Un pianosequenza che ha del miracoloso)
Capita spesso che mentre in primo piano dei personaggi scambiano delle battute, sullo sfondo altri personaggi scappano di nascosto, generando un incredibile e per nulla invecchiato effetto comico.
(Si direbbero disposizioni quasi teatrali di personaggi, se non fosse per il costante, squilibrato, movimento della mdp, che viaggia da una stanza all'altra con un gusto cinematografico straordinariamente avanti con i tempi)
La tensione aumenta quando comincia ad aumentare anche il delirio degli eventi. Tra inseguimenti, baraonde e vendette, il risultato è che va aumentando anche la violenza, e la messa in scena si attiene alla materia narrata cambiando continuamente registro e assumendo una vivacità, nei movimenti e nei toni, degna dell’Hawks più divertente.
(Una delle tante sequenze finali in cui la situazione narrativa degenera in un caos abnorme e stupefacente: Renoir però si mantiene sempre lontano dai suoi personaggi, seguendone i movimenti ma tenendoli anche fisicamente a debita distanza. La perdita del controllo lascia presagire anche l'imminente tragedia)
Come ha già detto qualcuno, La règle du jeu trascrive su pellicola le regole del fare cinema. A dirlo è Altman, che dal film di Renoir prende quella capacità propria della più alta settima arte di contenere il caos e di riproporne lo squilibrato, irriverente ma anche possibilmente elegante incedere. Ma ad avere visto La règle du jeu potrebbe essere stato anche Fellini, considerando la possibilità quasi pagliaccesca dell’onirico movimento di macchina che riesce ad astrarre dall’effettiva realtà per assumere un punto di vista. Manco a dirlo, Wes Anderson, tanto per il controllo quasi geometrico di certi spazi e di certi campi, quanto per l’ironia sarcastica nel movimento della macchina da presa, svelto ed efficace. Un film che ha fatto la storia, ma che è anche profondamente stimolante a livello personale, in quanto sembra di assistere non tanto alla vita messa in scena, ma al ritratto di quella messa in scena che è la vita.
(L'idea del palco e dello spettacolo passa dalla finzione scenica metateatrale a una condizione reale, qual è la simmetrica immagine dell'ingresso di casa de Chesnaye)
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