Regia di Bob Rafelson vedi scheda film
Il sogno, a volte, è solo una disordinata esplosione di pensieri, che assomiglia più a un fantoccio sfilacciato che non ad un’immagine ideale. Tale è, infatti, il miserando risultato che si produce quando l’ambizione si innesta sulla mediocrità e sulla frivolezza: un fuoco d’artificio che impiastriccia di colori il basso cielo. Rafelson pratica mirabilmente la difficile arte del grottesco involontario; il suo realismo si esprime tramite l’improvvisazione e la sconclusionatezza, che si muovono a ruota libera senza evoluzione e senza cercare l’effetto finale, eppure senza mai abbandonare, nemmeno per un solo istante, la vivace genialità della fantasia, intinta nella goffa teatralità del dramma. Più che costruire le storie, egli le fa parlare attraverso il dissonante vocio delle varie personalità, che equivalgono a tanti diversi stili di poesia estemporanea. Compito dei personaggi è inventarsi in continuazione, secondo la falsariga del proprio essere, che diventa la traccia della propria individuale recita a soggetto. La regola, per tutti, è che non si sa quel che si fa, non si sa dove si va, però si deve, a tutti i costi, essere se stessi. La controparte morale di questo principio è l’incapacità di pensare globalmente, al di là dei confini del presente e del proprio io. I racconti di vita vissuta di cui lo speaker radiofonico David Staebler è il solitario autore ed interprete, sono il modello narrativo a cui si ispira l’intero film: ognuno trasforma la propria verità in una finzione letteraria, in cui i ruoli, i progetti e le confessioni autocelebrano le rispettive debolezze, proiettandole sullo sfondo della cruda realtà. Renderle incredibili è forse il miglior modo per mascherarle; sparandole nella stratosfera dell’assurdo si arriva magari ad esorcizzarle. Esiste, però, un punto di non ritorno, che è quello in cui, a suon di buffonate, si vede irrimediabilmente lesa la propria dignità: la vita autentica ricompare allora, a rivendicare la propria parte, e il bilancio è, purtroppo, sempre in negativo. Il re dei giardini di Marvin ha l’aspetto di un Fellini d’oltreoceano che, pur rimanendo fedele al proprio stile, ha perso ogni fiducia nel valore terapeutico dell’illusione: il mondo ci continua a porgere la solita faccia claunesca, però guardarla con occhi incantati comincia davvero a farci stare male.
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