Espandi menu
cerca
Il Re dei giardini di Marvin

Regia di Bob Rafelson vedi scheda film

Recensioni

L'autore

FABIO1971

FABIO1971

Iscritto dal 15 luglio 2009 Vai al suo profilo
  • Seguaci 118
  • Post 11
  • Recensioni 526
  • Playlist 3
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi

La recensione su Il Re dei giardini di Marvin

di FABIO1971
10 stelle

"Nessuno legge più. Sono stato privato dei miei diritti letterari e bramo un pubblico. La forma dell'autobiografia tragica è morta, o morirà presto, insieme alla maggior parte dei suoi autori. Addio, parola scritta".
[Estratto da uno dei monologhi di Jack Nicholson, registrato su nastro, in bagno...]

David Staebler (Jack Nicholson) lavora come speaker in una trasmissione radiofonica notturna: è un artista della "spoken word" (perchè la parola scritta è morta...), forma di comunicazione utilizzata per presentare al proprio pubblico di ascoltatori la sua vita "non perchè sia particolarmente degna, ma perchè è comicamente indegna". Si reca dalla sua Filadelfia ad Atlantic City per accorrere in soccorso del fratello Jason (Bruce Dern), spiantato intrallazzatore (figlio degenere di quel "sogno" a stelle e strisce per cui soltanto il denaro e il successo possono condurre alla realizzazione individuale) momentaneamente rinchiuso in prigione ("Anche la vita è come il gioco del Monòpoli: tutto si compra e si vende": i "Marvin Gardens" sono, infatti, la casella più costosa della versione americana del popolare gioco): uscito su cauzione dal carcere, Jason illustra al fratello, sperando di coinvolgerlo, il suo ambizioso progetto di aprire un casinò a Tiki, un isolotto delle Hawaii. Jason, che vive insieme alla compagna Sally (Ellen Burstyn) e alla figliastra Jessica (Julia Anne Robinson) in un ambiguo triangolo sentimentale, tenta di convincere il pragmatico (e filosofo: non a caso il titolo di lavorazione del film era The Philosopher King) David della bontà delle proprie intenzioni, ma i suoi sogni di gloria ed il suo inesauribile entusiamo si scontreranno ben presto con un'amara ed imprevedibile eventualità: il fallimento. Scritto dall'esordiente Jacob Brackman, ex-critico cinematografico di Esquire e del New York Times, Il re dei giardini di Marvin, folgorante monumento della new wave hollywoodiana degli anni Settanta (all'epoca nel pieno del suo splendore) e terza regia di Rafelson a due anni di distanza dallo splendido Cinque pezzi facili, è una gelida, raffinata e lucidissima disamina della caducità del mito del successo, trasfigurata in una vicenda di ordinaria alienazione individuale, immersa a sua volta in un tessuto sociale cristallizzato nelle sue simboliche forme umane a rileggere allegoricamente l'eterna dannazione del "perdente", qui incarnato in due diverse tipologie di losers (l'entusiasmo del "sognatore" e la depressione del "filosofo"). La loro caduta agli inferi sarà lenta e graduale, ma inesorabile, perchè "nella vita quasi tutto è follia", come sottolinea Nicholson: "In questo manicomio che cosa ne sai di chi è pazzo veramente?". Sorretto da un cast magnifico (su cui svettano le straordinarie interpretazioni di Bruce Dern ed Ellen Burstyn), scandito dall'incedere dimesso e straniante della narrazione e dall'acutezza dell'analisi psicologica, Il re dei giardini di Marvin si snoda con grazia ed eleganza tra le pieghe dell'Utopia per eccellenza (la corsa al successo) per rivoltarne le viscere e metterne a nudo i fallimenti. Rafelson gioca con le proprie esperienze personali (fu studente di filosofia al college e deejay in Giappone durante la guerra) per raccontare malinconicamente la morte del sogno e l'inattuabilità di ogni cambiamento in una società castrante, famelica e desolata (rappresentata emblematicamente dai suggestivi paesaggi invernali, dal grigiore e dalla decadenza dell'Atlantic City in cui è ambientato il film, meravigliosamente ritratta dalla fotografia di Làszlò Kovàcs), dove l'uomo vive intrappolato nei perversi meccanismi che ne governano l'esistenza e da cui può soltanto tentare, in sublime assonanza con il precedente Cinque pezzi facili, un'illusoria fuga (ed infatti, sempre non a caso, Rafelson fu anche il produttore di Easy Rider). Finendo, poi, per arrendersi di fronte ad una realtà tragica e spietata. Capolavoro, naturalmente incompreso in patria, ma fondamentale per comprendere dove terminerà quella fuga: nel baratro (gli anni Ottanta)...

Ti è stata utile questa recensione? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati