Regia di Bob Rafelson vedi scheda film
"Nessuno legge più. Sono stato privato dei miei diritti letterari e bramo un pubblico. La forma dell'autobiografia tragica è morta, o morirà presto, insieme alla maggior parte dei suoi autori. Addio, parola scritta".
[Estratto da uno dei monologhi di Jack Nicholson, registrato su nastro, in bagno...]
David Staebler (Jack Nicholson) lavora come speaker in una trasmissione radiofonica notturna: è un artista della "spoken word" (perchè la parola scritta è morta...), forma di comunicazione utilizzata per presentare al proprio pubblico di ascoltatori la sua vita "non perchè sia particolarmente degna, ma perchè è comicamente indegna". Si reca dalla sua Filadelfia ad Atlantic City per accorrere in soccorso del fratello Jason (Bruce Dern), spiantato intrallazzatore (figlio degenere di quel "sogno" a stelle e strisce per cui soltanto il denaro e il successo possono condurre alla realizzazione individuale) momentaneamente rinchiuso in prigione ("Anche la vita è come il gioco del Monòpoli: tutto si compra e si vende": i "Marvin Gardens" sono, infatti, la casella più costosa della versione americana del popolare gioco): uscito su cauzione dal carcere, Jason illustra al fratello, sperando di coinvolgerlo, il suo ambizioso progetto di aprire un casinò a Tiki, un isolotto delle Hawaii. Jason, che vive insieme alla compagna Sally (Ellen Burstyn) e alla figliastra Jessica (Julia Anne Robinson) in un ambiguo triangolo sentimentale, tenta di convincere il pragmatico (e filosofo: non a caso il titolo di lavorazione del film era The Philosopher King) David della bontà delle proprie intenzioni, ma i suoi sogni di gloria ed il suo inesauribile entusiamo si scontreranno ben presto con un'amara ed imprevedibile eventualità: il fallimento. Scritto dall'esordiente Jacob Brackman, ex-critico cinematografico di Esquire e del New York Times, Il re dei giardini di Marvin, folgorante monumento della new wave hollywoodiana degli anni Settanta (all'epoca nel pieno del suo splendore) e terza regia di Rafelson a due anni di distanza dallo splendido Cinque pezzi facili, è una gelida, raffinata e lucidissima disamina della caducità del mito del successo, trasfigurata in una vicenda di ordinaria alienazione individuale, immersa a sua volta in un tessuto sociale cristallizzato nelle sue simboliche forme umane a rileggere allegoricamente l'eterna dannazione del "perdente", qui incarnato in due diverse tipologie di losers (l'entusiasmo del "sognatore" e la depressione del "filosofo"). La loro caduta agli inferi sarà lenta e graduale, ma inesorabile, perchè "nella vita quasi tutto è follia", come sottolinea Nicholson: "In questo manicomio che cosa ne sai di chi è pazzo veramente?". Sorretto da un cast magnifico (su cui svettano le straordinarie interpretazioni di Bruce Dern ed Ellen Burstyn), scandito dall'incedere dimesso e straniante della narrazione e dall'acutezza dell'analisi psicologica, Il re dei giardini di Marvin si snoda con grazia ed eleganza tra le pieghe dell'Utopia per eccellenza (la corsa al successo) per rivoltarne le viscere e metterne a nudo i fallimenti. Rafelson gioca con le proprie esperienze personali (fu studente di filosofia al college e deejay in Giappone durante la guerra) per raccontare malinconicamente la morte del sogno e l'inattuabilità di ogni cambiamento in una società castrante, famelica e desolata (rappresentata emblematicamente dai suggestivi paesaggi invernali, dal grigiore e dalla decadenza dell'Atlantic City in cui è ambientato il film, meravigliosamente ritratta dalla fotografia di Làszlò Kovàcs), dove l'uomo vive intrappolato nei perversi meccanismi che ne governano l'esistenza e da cui può soltanto tentare, in sublime assonanza con il precedente Cinque pezzi facili, un'illusoria fuga (ed infatti, sempre non a caso, Rafelson fu anche il produttore di Easy Rider). Finendo, poi, per arrendersi di fronte ad una realtà tragica e spietata. Capolavoro, naturalmente incompreso in patria, ma fondamentale per comprendere dove terminerà quella fuga: nel baratro (gli anni Ottanta)...
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