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Rashômon

Regia di Akira Kurosawa vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Rashômon

di yume
10 stelle

Film compatto, stretto, quasi annodato intorno a sé stesso da una spinta convulsiva e nichilista

 

 “Nell’animale uomo l’istinto di abbellire la propria immagine è qualcosa di insopprimibile, gli esseri umani sono incapaci di essere onesti con sé stessi, non sanno parlare di sé stessi senza abbellirsi. Questo bisogno di manipolare la verità sopravvive anche dopo la morte, anche il fantasma del samurai ucciso non può rinunciare a mentire…Il film è come una pergamena, la pergamena dell’io che si srotola davanti ai nostri occhi

In queste parole di Kurosawa si raccoglie il senso del film, che va dunque inteso come una desolata constatazione della capacità dell’uomo di mentire, a sé stesso prima che agli altri.

Il conclamato pirandellismo per cui va celebre (il relativismo della verità) è in fondo secondario e meno forte di questa raggelante affermazione, che si approfondisce e circostanzia man mano che la vicenda scorre, portando alla ribalta le differenti versioni sull’accaduto da parte dei protagonisti: un samurai è stato trovato ucciso in una radura del bosco, ognuno di loro accusa sé stesso, facendo però ricadere la responsabilità morale sull’altro.

Del delitto parlano come di cosa misteriosa e orrenda, tale da far perdere ogni fiducia nell’uomo, tre personaggi sotto la porta di Rasho a Kyoto (siamo nel 1100), mentre una pioggia sempre più diluviante riduce tutto ad acquitrino informe e i loro brevi commenti sono pause di sospensione fra un atto e l’altro, stasimi corali di una tragedia in quattro atti, un preludio e un epilogo.

Ogni atto vede una versione diversa dell’accaduto, affidata al resoconto puramente soggettivo di ciascuno.

Il brigante Tajomaru accusa sé stesso “… faceva un caldo spaventoso quel giorno…tutt’a un tratto cominciò a soffiare un venticello fresco….forse senza quella brezza l’uomo sarebbe ancora vivo.

La brezza ha sollevato il candido velo della donna che passa sul cavallo condotto a briglia dal marito samurai, la seduzione segue il suo corso, il samurai sarà legato ad un albero dalla forza agile e primitiva del bandito, la donna si difenderà con furia selvaggia ma sarà vinta dall’uomo e la mano bianchissima in primo piano che stringe la schiena sudata del bandito, mentre dall’altra le cade lentamente il pugnale, segnano il corso successivo della vicenda.

scena

Rashômon (1950): scena

Da questo momento ognuno di loro avrà delle ragioni giudicate molto valide ai propri occhi per non poter più accettare la condizione precedente, ma chi abbia effettivamente ucciso il samurai, o se addirittura si sia suicidato, affranto dal dolore e dalla vergogna del disonore, non sarà possibile saperlo, il vortice delle versioni contrastanti si arrotola su sé stesso come le volute del velo bianco della donna, che crea una cortina diafana dietro la quale la verità cambierà continuamente forma e sostanza.

Quello che alla fine emergerà sarà solo lo spaventoso labirinto dell’animo umano, un abisso nel quale inoltrarsi è pura follia.

Una follia buona però resta all’uomo, ed è l’amore disinteressato.

Quella che hanno definito “la finale moraluccia edificante piuttosto posticcia- che - non risolve ciò che dovrebbe risolvere( Mario Gromo, Film visti. Dai Lumière al Cinerama, Edizioni di Bianco e Nero, Roma, 1957) è il modo per Kurosawa di non arrendersi allo scetticismo paralizzante della ragione.

Forse l’epilogo non ha la forza corrusca delle scene dei duelli, la leggerezza di sogno delle movenze di balletto di Masago o la ferina carica seduttiva da fauno di Tajomaru, certo il film svetta in ben altre scene, nel linguaggio silenzioso del bosco, in quello del sole che occhieggia tra i rami, nel ritmo che la mano di Hayasaka assegna alle variazioni del Bolero di Ravel o nella fotografia fortemente contrastata di Miyagawa, addirittura caravaggesca in certi scorci del bandito.

Certo Rashomon è un film compatto, stretto, quasi annodato intorno a sé stesso da una spinta così  convulsiva e nichilista alla negazione/affermazione che lo sviluppo narrativo del finale può suonare stravagante o non in linea sul piano dello stile.

Eppure si tratta di un recupero delle ragioni dell’uomo semplice, l’umanesimo di Kurosawa è un dato con cui non bisogna mai dimenticare di fare i conti.

 

www.paoladigiuseppe.it

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