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Dov'è la casa del mio amico?

Regia di Abbas Kiarostami vedi scheda film

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La recensione su Dov'è la casa del mio amico?

di Peppe Comune
8 stelle

Ahmed (Babek Ahmadpoor), mentre sta per cominciare a fare i compiti, si accorge di aver messo per sbaglio nella sua borsa il quaderno di Mohamed Reda Nematzadeh (Ahned Ahmadpoor), il suo compagno di banco. Decide allora di portarglielo, per evitargli di subire la punizione del maestro (Kheda Barech Defai), che già la mattina l’aveva sgridato per come teneva scorrettamente il quaderno. Ahmed non conosce la casa di Mohamed, sa solo che abita in un paese poco lontano dal suo. Si mette perciò alla ricerca del casa dell’amico, disubbidendo alla madre (Iran Outari), che ha mostrato indifferenza riguardo ai buoni propositi del figlio, e con l’ansia di non farcela a tornare a casa prima che il forno chiuda. Perché un suo compito preciso all’interno della famiglia è quello di comprare il pane giornaliero.

 

 

“Dov’è la casa del mio amico?” è un film che assomma essenzialità stilistica e profondità d’analisi della società iraniana. E’ l’opera che fece conoscere al mondo il talento registico di Abbas Kiarostami il quale, a mio avviso, rappresenta uno degli esempi più evidenti di come si possa fare del grande cinema anche solo investendo sulla sobria semplicità della messinscena. Kiarostami ha visto molti film del Neorealismo italiano (Rossellini e De Sica su tutti) ed è chiaro che il suo cinema è imbevuto dello spirito vivo di quella poetica. Ma, considerando che Kiarostami è un iraniano che ha quasi sempre lavorato nel suo paese, è facile supporre che ha sempre dovuto confrontarsi con una ristrettezza di mezzi economici molto più marcata rispetto a quella con cui si sono dovuti confrontare gli illustri predecessori italiani. Prova ne è soprattutto questo film il quale, dell’indicata semplicità/essenzialità stilistica, fa bella e orgogliosa mostra. “Dov’è la casa del mio amico ?” si apre all’interno di una disadorna aula scolastica, poi si apre a ventaglio verso l’esterno, catturando spaccati di vita vissuta che aiutano a capire abbastanza dell’identità di un intero paese.  Abbas Kiarostami usa la macchina da presa come uno scandaglio della realtà, non c’è mai tensione nei suoi film, mai una volontà esplicita di voler imporre un punto di vista, eppure, in essi si avverte tutta l’urgenza di raccontare l’Iran, di fare delle immagini particolari che scorrono su schermo le chiavi narrative da cui poter scorgere i caratteri identitari del paese. L’originalità assoluta della sua cifra stilistica sta tutta nel fatto che il suo cinema è poesia per immagini che sa farsi specchio fedele della realtà. A differenza dei suoi mentori italiani, più che coltivare l’ambizione di raccontare la vita reale attraverso il cinema, Kiarostami ha sempre inteso trasportare la vita direttamente dentro ai suoi film. Facendo delle due cose parti unite ed indistinguibili : il cinema che guarda alla vita ponendosi come mezzo espressivo da valorizzare, e la vita che si serve del cinema per potersi rappresentare con rafforzata potenza iconografica.

La trama di questo film è di una semplicità disarmante , così come i pretesti narrativi adottati per dare vigore sociale alla trattazione per immagini. Lungo tutto il percorso che vede Ahmed cercare la casa di Mohamed per restituirgli il quaderno messo per sbaglio in borsa, la macchina da presa cattura tre profili generazionali i quali, nel loro essere necessariamente complementari, offrono uno spaccato molto attendibile sull’Iran. Innanzitutto ci sono i bambini, pronti ad aiutarsi l'un l'altro, a far spirito di corpo per addolcire l’autorità dei grandi che incombe su di loro. In aula li si vede svogliati, stanchi, seduti scomposti perché già sofferenti di mal di schiena a causa dei lavori che fanno coi rispettivi genitori. Ahmed attua una ribellione silente contro questo stato di cose, disobbedisce alle regole imposte dai genitori pur di aiutare l’amico. Fa molta strada per trovare la casa di Mohamed e nel suo lungo peregrinare, da paese in paese, da quartiere in quartiere, i suoi occhi hanno modo di registrare tutta l’indifferenza mostrata dagli adulti nei confronti delle sue richieste d’aiuto. Poi ci sono i grandi, i padri e le madri, che sembrano non ascoltare la voce dei figli, intenti solo ad impartire ordini e a mostrarsi autoritari. Convinti che il rigoroso rispetto delle regole sia il miglior modo possibile per far crescere integri moralmente i propri bambini. La severità d’atteggiamento diventa così una regola che sacralizza ruoli sociali consolidati. Infine, ci sono gli anziani che in quanto portatori di una saggezza certificata dagli anni, da un lato, incarnano l’istanza conservatrice di non essere troppo permissivi con i giovani, in modo da garantirgli un’educazione regolare e sicura (come spiegano le parole dette dal nonno di Ahmed), dall’altro lato, invece, sembrano raccogliere le richieste d’ascolto provenienti dai giovani, pronti ad indicargli la strada più giusta da prendere per raggiungere i loro scopi (come dimostra il vecchio falegname che indica a Ahmed la casa dell’amico). Il finale rappresenta una chiusura del cerchio inevitabile, perfettamente aderente con la poetica dell’autore iraniano : semplice nella costruzione scenica ma pieno di contenuti narrativi. Si ritorna in classe, con il maestro che sta controllando i compiti sui  quaderni  di tutti gli alunni. Solo allora Mohamed si rende consapevole di questa forma di complicità disinteressata praticata dal vicino di banco e solo allora può riconoscere la sua dimostrata lealtà. Questo espediente narrativo, a mio avviso, accresce il senso voluto da Abbas Kiarostami di fare di Ahmed l’incarnazione di un altruismo che nasce spontaneo e su cui si potrebbe investire per pensare ad un futuro su fondamenta umane totalmente nuove. Film di una levità poetica disarmante. Grande cinema.

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