Regia di Abbas Kiarostami vedi scheda film
Settimo lungometraggio di Kiarostami, Dov’è la casa del mio amico ha fatto conoscere all’Occidente quel suo sguardo inconfondibile sulle cose e sugli uomini, appena appena offuscato dallo scivolone di Copia conforme.
Ma film come Il sapore della ciliegia e questo basterebbero a far dimenticare tutto e tremare per le sorti attuali del grande cinema Iraniano.
Un film ad altezza di bambino, Ahmad, che vive in uno sperduto paese dell'Iran vicino ad un intrico di altri villaggi dai nomi improponibili, dove cerca disperatamente la casa del compagno di scuola di cui ha preso per sbaglio il quaderno, il mattino, alla fine delle lezioni.
L’amico non potrà fare i compiti, era già stato rimproverato dal maestro per aver fatto male il suo lavoro, aveva pianto davanti a tutti e poi, fuori, era anche caduto sporcandosi i pantaloni arancione, quelli che tante speranze daranno alla lunga ricerca di Ahmad quando li vedrà pendere, lavati, nel cortiletto di una casa.
Ma ahimè, non sono quelli dell’amico.
Il maestro stavolta lo punirà severamente, ha detto che bisogna imparare la disciplina, essere educati e rispettosi, fare i compiti prima di ogni altra cosa e prima ancora di lavorare col padre a tirar su legna o pesanti bidoni di latte.
I doveri sono tanti per questi ragazzetti tutt’altro che obesi come vitelli all’ingrasso, tutt’altro che rumorosi e strafottenti come certa fauna infantile attualmente in circolazione in Occidente.
Sono piccoli, docili, guardano con occhi sgranati, sembrano incapaci di dire una parola di troppo, ma quanta umanità, freschezza, serietà, amicizia riescono ad esprimere!
Ahmed pensa che deve a tutti i costi trovare la casa dell’amico nel distretto di vattelapesca per riportargli il quaderno.
Corre, corre, corre…doveva comprare il pane, gli aveva detto la mamma alle prese col piccolo da allattare, e allora via fuori col quaderno, magari riesce a far tutto e tornare in tempo…e corre.
“C’è una collina tra i due villaggi – dice Kiarostami – e sulla cima della collina un albero, che nella nostra letteratura è simbolo di amicizia; il continuo correre di Ahmad rappresenta le difficoltà per poterla raggiungere”.
E’ un correre che sa quasi di sovrumano, quello di Ahmed, con le sue gambette veloci e il maglioncino rosso, la calottina nera di capelli serrati e gli occhioni seri, col quaderno sotto il braccio e questa casa che non si trova mai.
E gli adulti, i vecchi, niente da fare, se mai lo ostacolano, i discorsi del nonno sull’educazione quasi ci ricordano quelli dagli Adelphoe di Terenzio, il maestro è di una petulanza che non ha confini, e i bambini tacciono.
Ma guardano, pensano, nella loro mitezza, quando s’incontrano e si scambiano poche parole, si respira un’aria diversa.
C’è un ritmo nelle riprese che incanta, è poesia che si trasforma in immagine, è una storia dalle Mille e una notte che rimbalza fino a noi, sceglie Ahmed come piccolo eroe e ci racconta di una cultura diversa, lontana nei modi, nei rituali, nella lingua e nei costumi, eppure così vicina in quella galassia di mondi in cui siamo tutti uguali sotto lo stesso cielo.
Un film sull’incomunicabilità? In un certo senso sì, ma è anche altro.
Sohrab Sepehri è un poeta iraniano citato nei titoli di testa.
Tu andrai in fondo a questo viale
che emergerà oltre l'adolescenza,
poi ti volterai verso il fiore della solitudine.
A due passi dal fiore, ti fermerai
ai piedi della fontana da dove sgorgano i miti della terra...
Tu vedrai un bambino arrampicato in cima a un pino sottile,
desideroso di rapire la covata del nido della luce
e gli domanderai: dov'è la dimora dell'Amico?
Forse è un film sul mondo salvato dai bambini, da quei bambini.
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