Regia di Luca Guadagnino vedi scheda film
Negli anni 50, nel mondo anglosassone — e ancor più tra gli espatriati messicani rifugiatisi in Messico — queer significava frocio, checca, invertito : termini che portavano con sé l'eco della marginalizzazione, della vergogna e della violenza.
William Burroughs, per scrivere il suo romanzo, parte proprio da questa ferita.
Guadagnino sceglie di riportarlo alla luce, facendone un film che non solo ne rilegge la carne e la psiche, ma che prova a ridare senso — o almeno tensione — a quel termine : queer, appunto, una parola che, nel 2024, non suona più come un insulto, ma come un campo di forze, una zona di attrito tra identità, desiderio e rappresentazione.
Nel film non viene mai spiegato il significato del termine, che rimane ambiguo per tutta la sua durata e pulsa sottopelle, in ogni sguardo trattenuto, nella voce rotta del protagonista Lee, nell'ossessione silenziosa che lo consuma.
In quel bisogno disperato di essere visto, desiderato, riconosciuto da un altro uomo — Allerton — che non gli restituirà mai lo stesso sguardo.
Lee è un uomo in fuga. Ma non da qualcosa, da se stesso.
Siamo in Messico, negli anni '50, e Lee è uno degli espatriati americani che trascorrono le giornate in spirali ipnotiche di mescal, rapporti occasionali e hotel di terz'ordine.
Tra i corpi intercambiabili e svuotati di significato che si aggirano in questi spazi, ve n'è uno che appare, disturba e allo stesso tempo lo illumina : quello di Eugene Allerton, studente biondo, elegante, riservato.
Eugene è diverso, distante, quasi intoccabile. E proprio per questo si trasforma in ossessione.
Per distinguersi — o forse per schermarsi — Lee impugna la parola "queer" come arma difensiva. Non per rivendicare un'identità, ma per prenderne le distanze. Egli cela il desiderio utilizzando la maschera della misoginia, dell'alcol, del cinismo.
La parola "queer", per lui, è ancora un insulto, uno stigma, ma anche un segnale d'allarme per il diverso. È un tentativo di trattenere un briciolo di controllo su un desiderio che altrimenti lo inghiottirebbe.
Ma proprio questo suo rifiuto, questa sua mascolinità artefatta e teatrale, finisce per renderlo ancora più vulnerabile.
Con Allerton, però, qualcosa cambia fin da subito. Non è solo una questione di attrazione – che pure è immediata – ma di possibilità. Allerton risponde. Non si concede mai del tutto, ma non respinge. C'è uno scambio, anche solo fatto di sguardi, esitazioni, minuscoli sorrisi. Un'apertura. Ed è questa crepa nella corazza a rendere tutto diverso. Il rischio, almeno all'inizio, è il rifiuto, ma è proprio quella zona grigia dell'ambiguità – fatta di sfumature, di "forse" – a nutrire l'ossessione di Lee.
Non è amore corrisposto, ma nemmeno disprezzo. È una trattativa affettiva, una negoziazione continua che porterà i due, lentamente, a condividere un viaggio – fisico e mentale – verso sud, lungo il continente americano, fino al cuore oscuro e mitico dell'Amazzonia.
È lì che prende corpo uno dei motivi più profondi del film: la ricerca dell'ayahuasca. Più che una sostanza psichedelica, essa diventa per Lee la promessa di un altro modo di essere, una risposta potenziale alla sofferenza che nasce dalla separazione – da sé, dall'altro, dall'origine. La sua è una fuga dalla frammentazione dell'individuo verso un'ipotesi di unità, di fusione telepatica con ciò che è altro da sé. Il desiderio non è più solo sessuale o affettivo: è ontologico. È il desiderio di non essere più separato. Di annullare quella distanza che "queer", in fondo, non definisce ma incarna.
Il Queer di Guadagnino, pur rimanendo fedele alla natura intimamente autobiografica e disillusa del romanzo di Burroughs, lo reinventa, lo "tradisce" creativamente attraverso il linguaggio del cinema. È il romanzo autobiografico che diventa "autocinema", se vogliamo azzardare un termine: lo sguardo che Burroughs rivolge su se stesso, spietato, clinico, a tratti patetico, viene rielaborato da Guadagnino con una forma visiva che è tutto fuorché asciutta o cruda.
Il romanzo di Burroughs è una sorta di radiografia affettiva di un uomo in fuga, attraversata da un amore non corrisposto e da un senso di fallimento che non cerca né perdono né romanticismo. Nel portarlo sullo schermo, Guadagnino resta fedele a questo impianto, ma al contempo lo espande, lo trasforma in un'opera stratificata, visivamente lussureggiante e sorprendentemente malinconica. Il suo Queer è un film sul desiderio, sì, ma anche sull'impossibilità di contenere quel desiderio entro i limiti del reale. E proprio qui, nel passaggio dalla pagina al fotogramma, il pessimismo di Burroughs si fa cinema.
In Queer, il dolore non è solo tema: è atmosfera, colore, gesto. Ma è un dolore che viene contrastato – o meglio, incorniciato – dalla finzione cinematografica. Guadagnino gioca apertamente con i codici: dai modellini alle scenografie ricostruite in studio, dalla CGI più esibita agli effetti analogici, tutto nel film ci ricorda che stiamo assistendo a una messa in scena. Un artificio dichiarato, che non cancella il dolore ma lo trasfigura, lo rende, paradossalmente, ancora più reale. I riferimenti più evidenti sono sicuramente Cronenberg – in particolare quello di Il pasto nudo – Fassbinder e Sirk, ma Guadagnino, non avendo mai nascosto il debito, sceglie una strada sua: più sensuale, più romantica, e forse persino più compassionevole.
Se l'alienazione del protagonista si manifesta fin dall'inizio con un effetto visivo di disturbo, la sua tensione emotiva, i suoi slanci repentinamente negati, i suoi desideri trattenuti trovano invece sfogo nei fantasmi analogici di una sovrimpressione vecchio stile, che trasforma l'indecisione del gesto in immagine poetica. Queer è un film che rifugge il naturalismo e abbraccia la finzione in ogni suo aspetto, anche e soprattutto nei suoi cortocircuiti. Il passato è filtrato dal presente: lo dimostra la colonna sonora, anacronistica ma perfettamente sintonizzata con l'emotività delle immagini, che spazia dai Nirvana ai Verdena, restituendo un senso di spaesamento temporale che diventa componente attiva del racconto.
Guadagnino non traduce Burroughs: lo interpola. Prende un testo incompiuto, rimasto per decenni inedito e quasi rimosso, e ne fa il punto di partenza per una riflessione sulla natura stessa del desiderio, sulla sua solitudine, sulla sua ostinazione. Il queer qui non è un'etichetta identitaria, né un insulto da riappropriarsi: è un'interferenza, un rumore di fondo, una nota dissonante. È tutto ciò che resiste a essere codificato. Guadagnino, in fondo, non fa che dichiararlo sin dal titolo: "Queer" non è una categoria, è una possibilità. E in questa possibilità, finalmente, ci si può anche perdere.
Soffermandoci ancora per un attimo sull'impianto estetico del film, possiamo notare come Guadagnino lo strutturi attraverso una precisa dicotomia cromatica: la luce rarefatta, calda e porosa della Città del Messico, dove la vita sembra ancora giocarsi all'interno di un'ironia collettiva, di un tempo condiviso, e l'ombra più netta, contrastata, quasi torva, del Sud America, dove il viaggio si fa interiore, visionario e, infine, senza ritorno. È una scelta visiva che richiama non solo il cinema classico, Powell e Pressburger in primis, ma anche l'eredità melodrammatica nel senso più nobile del termine – dove il colore è sentimento, il contrasto è destino.
Queer mostra come l'amore, nel suo tentativo di ricomporre l'individuo con l'altro da sé, non trovi risposte nel reale, ma solo nell'intensità del sentimento tragico. Il melodramma, allora, diventa l'unico linguaggio possibile.
In un'intervista concessa a Film TV, Guadagnino ha detto che per lui l'amore è fusione. Ma in Queer sembra voler mettere in discussione la sua stessa idea, perché anche quando i corpi si avvicinano, il découpage li tiene a distanza. I corpi si toccano, si offrono, si prendono, ma sempre per partes. La regia frammenta, scompone, isola i gesti, come se ogni atto d'amore non fosse che un esercizio di memoria futura. Attimi trattenuti che, come fantasmi, riemergeranno in un secondo tempo, a chiedere conto di ciò che è stato e che, forse, non sarà mai più.
Così, come il film precedente, Challengers, usava il tennis e il triangolo relazionale per evocare la nostalgia di un'immagine giovanile perduta, anche qui Guadagnino lavora su un'idea di fantasma: lì era la freschezza del passato, qui è l'illusione del futuro, il sogno di un legame possibile
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