Regia di Alexander Kluge vedi scheda film
Prima o poi un serio discorso valutativo sull’opera complessiva di Alexander Kluge, uno dei nomi di punta della cinematografia tedesca della seconda metà del secolo scorso e adesso passato così tanto di moda che quasi non ci si ricorda chi fosse, dovremo pur farlo!!! Possiamo provarci partendo intanto dalla sua interessante opera prima., lucido e amaro rapporto critico sulla società germanica di quegli anni corroborato da una ricerca sperimentale del linguaggio, e magnifico apripista per le nuove correnti che si svilupperanno poi nel successivo decennio dei ’70.
Lo scrittore Kluge (perché quella era stata la sua attività primaria fino a quel momento), per il suo esordio sul grande schermo, scelse di ripartire proprio dalla sua esperienza di narratore, e lo fece alla grande, aggiudicandosi subito un meritatissimo Leone d’argento alla Mostra del cinema di.Venezia del 1966, un’annata particolarmente feconda che vedeva in competizione opere come Au hasard Balthasar di Bresson, La battaglia di Algeri di Pontecorvo, Les Crèatures di Agnes Varda, Farhenheit 451 di Truffaut, Nattlek di Mai Zetterling, Un uomo a metà di De Seta, Atithi si Tapan Sinha, Pervij Ucitel di Andrej Mikhalkov-Kontchalovski e The Wild Angels di Roger Corman.
La sua carriera registica, iniziò infatti con questo Abschied von gestern (La ragazza senza storia nella versione italiana, ma Commiato dall’ieri, se ci si fosse limitati a tradurre fedelmente l’originale e che si rifà alla citazione di Reinhard Baumgart che apre appunto il film: Non un abisso ci separa da ieri, ma la mutata situazione) che, traendo origine da avvenimenti realmente accaduti e già da lui narrati nel libro pubblicato in Italia col titolo Biografie, racconta una dolorosa testimonianza umana di particolare pregnanza sociologica che è anche un’amara riflessione sulla società corrispondente, fatta attraverso gli occhi (o meglio, lo sguardo) di una donna.
La storia di Anita G. (è lei la ragazza senza storia del titolo italiano, che una volta tanto, è tutt’altro che disprezzabile, e rende abbastanza bene il senso della pellicola!), viene sviluppata dal neo-regista, dividendola in capitoli (proprio come si fa nei romanzi) con una tecnica di narrazione-saggio assimilabile a certe modalità tipiche della Nouvelle Vague, che lo ha certamente influenzato. Costruito con assoluta e totale libertà estetica, ricorda infatti molto da vicino il cinema di Godard di quegli anni (in particolare Vivre sa vie), anche se poi in effetti Anita, come personaggio, non ha nulla della Nanà godardiana (e non solo perchè non è una che di mestiere fa la prostituta),ma neanche presenta analogie descrittive che possono avvicinarla (per rimanere nell’ambito della cinematografia tedesca), alla Ragazza Rosemarie di Thiele (1958), con la quale potrebbe semmai avere qualche lontana analogia di percorso di vita. Anita è infatti “semplicemente” una giovane donna non diversa da tante altre sue coetanee, piena di paure e in costante fuga dalla realtà, che nonostante i suoi sforzi, non riesce a inserirsi nella società del suo tempo e a ritagliarsi un spazio adeguato. E’ insomma una creatura sola e indifesa che ha imparato presto a soffrire e che tenta di resistere ad ogni costo lottando con le unghie e con i denti per non soccombere ed essere definitivamente sopraffatta dagli eventi e dalle disavventure che si troverà a fronteggiare: è una piccola ladra per necessità, all’occorrenza, anche una bugiarda, se si rende necessario, ma solo e sempre per istinto di difesa, per quel primordiale senso di sopravvivenza “ad ogni costo” che è patrimonio prioritario di ogni essere umano.
Le vicende di Anita, non hanno dunque nulla di gratuito, né tantomeno presentano fatti di spettacolare rilevanza: inserita in un preciso contesto sociale e politico, la donna non ha certezze, e può contare solo su ciò che lei conosce, per la sua lotta quotidiana alla ricerca di un (im)possibile riscatto.
Il film si presenta allora come il diario soggettivo di un’esistenza un po’ sbandata e senza regole che si intreccia spesso con i ricordi di un passato che tendono ad assumere la forma di una specie di contrappunto emblematico, montati come sono con una logica molto più simbologica che narrativa (il “privato” di fotografie che immortalano serate borghesi e concerti casalinghi, e il “pubblico” affidato ai materiali documentari sia visivi che sonori, che lasciano intravedere spesso anche divise naziste, tanto per contestualizzare le circostanze storiche), con una sorta di straniamento di stampo brechtiano che con il suo aprire una via diretta alla coscienza dei protagonisti ricorrendo ad associazioni di vario tipo (Spagnoletti) facilita notevolmente la riflessione critica dello spettatore.
Ebrea, nata a Lipsia nel 1937 e cresciuta nella zona Est di Berlino, Anita G. fuggirà da Magdeburgo per raggiungere finalmente l’agognata Germania dell’Ovest, alla ricerca di una condizione di vita più dignitosa, ma proprio al di là del confine, in quella specie di “nuova terra promessa”, si troverà presto inguaiata per aver rubato un vestito.
Posta sotto sorveglianza, riuscirà a fuggire di nuovo eludendo la vigilanza, proseguendo così il suo percorso in disperata solitudine.
Troverà un lavoro di commessa in un negozio di dischi, diventerà l’amante del principale, cercherà di emanciparsi pretendendo di frequentare l’Università senza averne i titoli necessari, arrivando persino, nel suo vagabondare errabondo, ad avere una relazione con un funzionario ministeriale che la metterà in cinta per poi abbandonarla. Sopraffatta dagli eventi traumatici della sua esistenza randagia, toccherà gli abissi della depressione nervosa, decidendo poi quasi come per arrendersi alla ineluttabilità della sua sorte, di costituirsi alla polizia.
La camera di Kugle, segue Anita, creatura piena di dubbi e di contraddizioni ma vivida e “vera”, impaurita come un animale selvatico braccato dagli eventi, attraverso le sue giornate monotone, vuote e prive di calore umano, lungo il suo peregrinare di città in città, di strada in strada, con rigorosa, certosina osservanza. Assiste con lucido e implacabile sguardo, ai suoi infruttuosi tentativi per integrarsi in un sistema gelido ed egoista, privo di amore e di slanci autentici, annota le sue cadute e i suoi fallimenti senza moralismi o falsi pietismi, per fornirci un ritratto attendibilissimo di una ragazza che è anche lo specchio di una consistente fetta della gioventù tedesca divisa fra le due Germanie, di quel terribile dopoguerra così a lungo protrattosi, e che solo la caduta del muro di Berlino (ma eravamo ormai arrivati alla fine degli anni ’80) ha potuto forse “riconciliare” con la vita, i propri bisogni e le proprie aspirazioni..
La ragazza senza storia, è una pellicola intensa attraversata dalla dolorosa umanità della sua protagonista (interpretata magistralmente da Alexandra Kluge, sorella del regista). E’ stimolante e problematicamente convincente negli sviluppi e nelle scelte tematiche, ha una personalissima cifra stilistica per alcuni versi ancora un po’ grezza, ma che si dimostra già foriera di possibili sviluppi in crescendo (lo dimostreranno le sue successive opere come Occupazioni occasionali di una schiava e Artisti sotto la tenda del circo: perplessi). Diciamo insomma che è una prova interessante anche se non completamente fluida e omogenea in ogni sua parte, che lascia a tratti affiorare piccole oscurità e leggere ambiguità, ma che forse proprio in questo suo essere ancora un po’ embrionale (come lo sono spesso anche le opere prime più riuscite) risiede la sua specie forza attrattiva che resiste al tempo e alle mode. Resta in ogni caso, soprattutto un’imprescindibile testimonianza sincera e palpitante, sul disagio della gioventù tedesca di quegli anni.
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