Regia di Francesca Comencini vedi scheda film
CIAK MI GIRANO LE CRITICHE DI DIOMEDE917: IL TEMPO CHE CI VUOLE
Il cinema italiano riparte dalla metabolizzazione dei propri dolori.
E se il risultato sono film di rara bellezza come “È stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino oppure come “Il tempo che ci vuole” di Francesca Comencini allora ben venga questa condivisione di quelle zone d’ombra che hanno formato questi registi sia artisticamente che umanamente.
La chiave di lettura che Francesca Comencini ha voluto regalarci nel raccontare il suo rapporto con il padre Luigi (uno dei padri del grande cinema italiano) è l’esclusività del loro rapporto.
Nonostante Luigi Comencini avesse una moglie e 4 figlie in tutto il film ci sono solo loro due. Lei è la piccolina del papà presenza costante di tutto quello che capita nella vita del cineasta.
Luigi Comencini era il regista dei bambini, nessuno come lui sapeva parlare ma soprattutto ascoltare la voce dell’innocenza. Era un uomo che credeva ad ogni loro parola, era un uomo che affermava che i bambini non nascono cattivi lo diventano (citando il personaggio burbero del Mangiafuoco), era un uomo che preferiva rimproverava pesantemente il mondo adulto che sia rappresentato da un’insegnante che prende in giro un alunno timido o un assistente del set che insulta gli abitanti del paesino dove girano “Le Avventure di Pinocchio”. “Prima la Vita e poi il Cinema” grida Luigi Comencini come un maestro che sta insegnando la materia più difficile: Essere Umani.
In questo contesto cresce la piccola Francesca, una bambina sempre dentro “Il Campo visivo del padre”. Un campo lungo che si perde nei totali che sono fondamentali nel cinema di Comencini, perché il pubblico si deve perdere insieme alla loro immaginazione.
Una bambina che si identifica nello spirito libero di Lucignolo e che è terrorizzata dalle fauci della Balena collodiana, una balena che l’accompagnerà anche quando diverrà donna e si innamorerà di quell’uomo che non le farà crescere le orecchie d’asino ma che la farà sprofondare nel Paese dei Balocchi dell’eroina.
Francesca Comencini si mette totalmente a nudo ma senza cadere nell’autoreferenzialità, anzi lo fa facendo cinema dirò di più facendo grande cinema.
Citazione colte e dotte per tutte le due ore di film. Alterna i cortometraggi salvati dal padre durante la seconda guerra e donati alla Cineteca di Milano, Atlantide di Pabst rivisto con gli occhi meravigliati del bambino Luigi che ricordava il bambino Giuseppe Tornatore, Ultimo tango a Parigi attraverso i corpi dei due protagonisti che camminano sotto il ponte che ha immortalato Brando e la Schneider o stanno sdraiati sul pavimento di questo anonimo appartamento dove staranno “Il Tempo che ci vuole” per disintossicarsi dalla vita tossica e ricominciare da dove hanno lasciato, ma soprattutto sono le lacrime di Comencini davanti a Paisà dicendo commosso “Che Bello, hai visto cosa fa Rossellini?”.
E tutte queste emozioni da groppo in gola ma senza pietismi sono possibili grazie alla bravura spaventosa dei due protagonisti scelti da Francesca Comencini per raccontare la sua anima.
Fabrizio Gifuni s’impossessa e ne prende in prestito il corpo di Luigi Comencini. Quella coppola, quella camminata, quello sguardo autorevole e protettivo, quel tremore del Parkinson che cercava di tenere nascosto per non perdere contatto con la realtà.
Romana Maggiora Vergano è ancora una figlia dopo “C’è ancora domani”, ma in questo caso ha l’onere di rappresentare gli anni complicati e tormentati di Francesca Comencini a conclusione di un percorso che è iniziato con Pianoforte la sua opera prima vincitrice del Premio De Sica a Venezia e fortemente autobiografica dove racconta il suo Amore Tossico.
Il Tempo che ci vuole è un film sui fallimenti che ci aiutano a crescere e ci fanno diventare grandi, ma soprattutto un film su un confronto generazionale molto attivo in quegli anni in tutti i campi della vita.
Da quello familiare, politico ed anche cinematografico.
La Televisione ci parla dei morti del terrorismo che sia Piazza Fontana o il rapimento Moro (toccante la reazione della classe di Francesca alla notizia del rapimento del Presidente della DC accolta con un applauso liberatorio) e l’opera prima di Francesca è un motivo di confronto tra la necessità di autoraccontarsi attraverso i film e il cinema popolare fatto per divertire e far pensare il grande pubblico.
E alla fine di questo lungo viaggio chiamato vita, padre e figlia si troveranno a lavorare insieme all’ultimo film dove lui le lascia come testamento artistico quei consigli che ha sempre odiato dare alla figlia. Un momento di una tenerezza incredibile che li porterà a parti invertire a volare nel mondo fantastico delle Avventure di Pinocchio accompagnati dalle note di quella colonna sonora che è ormai immaginario collettivo.
Come la bocca della Balena.
Voto 8
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