Regia di Jean-Pierre Melville vedi scheda film
Un viaggio di verità, per quanto amara, attraverso gli Stati Uniti come non li abbiamo mai visti prima.
È davvero un film poco noto di un regista, al contrario, molto noto almeno tra i cinefili. È anche una pellicola insolita, che dà un'immagine inusuale degli Stati Uniti: luoghi marginali e minimali, oltre che piuttosto dimessi e sporchi, e personaggi altrettanto ai margini.
La trama, in poche parole, presenta un viaggio durante il quale la vera natura dei due personaggi emerge con sempre maggiore chiarezza: il pugile suonato non è un agnellino, e lo spregiudicato industriale non è così feroce come sembra.
Il protagonista (Belmondo) è un uomo egoista e bugiardo, anche per come mente cinicamente alla sua ragazza, la quale è però convinta che in fondo sia una brava persona. Più che vivere, si barcamena tra le situazioni, improvvisando il comportamento ad ogni minuto, a seconda di come può trarre più vantaggio di volta in volta. Che sia il denaro, il potere o il sesso, questi idoli valgono per lui più di qualunque parola data, sentimento od obbligo lavorativo. È anche acuto nello studiare le persone, perché capisce presto i loro punti deboli, per manipolarle e prendere il sopravvento su di loro. Tuttavia, da qualche parte dentro di sé, sembra avere un residuo di umanità che ogni tanto fa capolino nel suo egoismo. Verso tutto e tutti ostenta un'aria flemmatica e distaccata, quella di chi si sente superiore e non coinvolto. Insomma, è un personaggio complesso, che fa intravvedere attorno a sé un'aura di ambiguità,
Gli altri personaggi sono più o meno negativi, e sembra non esserci posto per l'amore e l'amicizia.
Belmondo recita con efficacia un ruolo che gli era congeniale, almeno a giudicare dai personaggi simili che ha assunto in altre pellicole. Charles Vanel mi sembra che dia un'interpretazione un po' più di maniera e forse non troppo sentita.
Melville dirige con la sua solita essenzialità e con il suo abituale stile asciutto e minimalista, che lo rendono unico. Non è difficile vedere, tuttavia, qualche influenza da parte di Bresson. Mi riferisco allo stile stesso, e a certe scene precise, come quella al banco dei pegni con la catenella. Essa poteva benissimo esser stata girata dal suo illustre collega.
Viene da ipotizzare, nell'altro senso, che Joseph Losey abbia visto questo film prima di girare “Il servo” (1963), perché la natura del protagonista e del rapporto con l'industriale presenta evidenti analogie con il servo e il padrone di Losey. In entrambi i casi, vediamo un furbo servitore / assistente che fiuta la debolezza del suo padrone e riesce presto a metterselo sotto i piedi.
Girato nello stesso anno de "Lo spione", e forse ne rimane un po' al di sotto.
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