Regia di Isabella Eklöf vedi scheda film
Difficile negare che le aggressioni scioccanti ma gelide delle prime due scene di Kalak di Isabella Eklof siano innocenti. Tutto Kalak è un montare continuo di suggestioni provocatorie, in cui qualsiasi strategia è giustificata per uncinare l'attenzione dello spettatore. Anche quando il film sembra adagiarsi, dopo 10 minuti, sulla narrazione più quieta: lo spettatore si ritroverà a interrogare continuamente i sorrisi del protagonista, i suoi comportamenti, il suo rapporto con la moglie, la sua vita in Groenlandia come infermiere, con dietro tutta la famiglia che lo ha seguito. Lo spettatore si domanderà di certo delle modalità con cui Jan cerca di integrarsi nel luogo, imparando la lingua ma soprattutto intrecciando relazioni sessuali con le donne del luogo senza nascondere nulla alla moglie; lo spettatore si soffermerà sulla varietà umana femminile che risponde alle infiltrazioni di Jan in un tessuto sociale che è accogliente e imprendibile al contempo, che segue un suo ritualismo formale ma poi è capace di reagire con la massima crudeltà. Jan - dovrà rispondersi forzatamente lo spettatore alla fine - forse sta elaborando un trauma, sta cercando di soprassedere su un rimosso indicibile di cui neanche la moglie è a conoscenza, il motivo per cui non vuole tornare a Copenhagen. Forse un motivo che si cela dietro la prima immagine erotica del film.
Sono queste le domande che si celano dietro Kalak e gli attacchi subdoli della sceneggiatura del film: spingere continuamente alla domanda, chiedere il conto ai visi e agli occhi, parlando di integrazione sociale e di integrità umana. Purtroppo il finale sembra però una sola risposta a un ventaglio di domande, ed è una scappatoia che di quel sparpagliamento di carte di tutta la prima ora di film vede quasi esclusivamente lo stratagemma furbo e pigro.
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