Regia di Peter Fleischmann vedi scheda film
Tratto da un lavoro teatrale di Martin Sperr (qui anche interprete principale nel ruolo del protagonista, un laconico, disperato, solitario e imbarazzato Abram), il film di Peter Fleischmann è un realistico ritratto robusto e appassionato (quasi un polemico apologo) contro l’intolleranza e l’odio, sentimenti reazionariamente corrosivi, portatori di una inusuale carica di violenza che impregna di istinti primordiali (quasi animaleschi) uno spaccato umano rappresentativo di una condizione provincialmente emarginata, chiusa e mediocre amplificandone a dismisura la natura malvagia e gli allarmanti connotati distruttivi in una società quasi tribale, nonostante gli sviluppi tecnologici e il progresso che sembrano averla sfiorata solo in superficie. Quello di Fleischmann è un indignato pamphlet contro i rischi di un “pericoloso ritorno” (non a caso l’ambientazione del dramma è la Baviera, o meglio la Bassa Baviera, territorio emblematico che corrisponde all’humus sociale e politico dove trovò le necessarie radici attecchenti il nazionalsocialismo hitleriano, fra miti esasperati di virilità e necessità purificatrici finalizzate ad eliminare ogni diversità inquinante). Lo stile è pregevole, schietto e quasi documentaristico come la materia richiede: un cinema verità poeticamente realistico, acuminato come la lama di un coltello (quasi Bressoniano oserei dire se il regista possedesse una più magmatica fantasia visiva capace di elevare l’opera a significati più drammaticamente precisi) che osserva le persone (i comportamenti dei contadini) e i luoghi (i paesaggi, la vita nei campi, le tragedie e le disperate ricerche delle proprie identità negate) con entomologica precisione, quasi chirurgico nelle sue scansioni, nel progressivo avvicinamento al dramma metaforicamente annunciato in maniera esemplare con la scena magistrale dell’uccisione del porco, rito antico e feroce analogo a quello che si consumerà nei confronti del protagonista, costringendolo a sua volta ad assumere i connotati dell’assassino. La fotografia traduce esattamente nelle immagini l’atmosfera ambigua, “sporca”, indefinibile e pericolosa che domina le azioni di quel microcosmo cattolico-reazionario che anima lo sfondo e politicizza il risultato. Sono due universi antitetici quelli che ci vengono presentati: l’ottusa innocenza degli esclusi contrapposta alla volgarità insolente e violenta di chi li sfrutta e umilia. Saldamente radicato nella realtà bavarese, è esemplare nel rendere universale il messaggio di una storia racchiusa in un ristretto spazio provinciale e distante ma che ci rappresenta tutti molto da vicino, esasperando contraddizioni che sono anche nostre (ancora e sempre), attraverso l’evidenziazione delle difficoltà oggettive create dalle “diversità”, sempre e comunque rifiutate da una società conservatrice e guardinga, ancorata alle proprie ancestrali paure che “teme” come la peste la possibile “contaminazione indotta” e lo scandalo, e per scongiurare conseguenze così devastanti per il proprio equilibrio, isola, epura ed elimina i deboli o chi “crea scompiglio morale o sociale per la non corrispondente omologazione del sentire e del vivere”, legittimando la propria ferocia col codice puritano della “salute pubblica”. Eliminati finalmente i “corpi estranei”, amputati i bubboni putrescenti, si può finalmente tornare alla normalità compiaciuta della vita riportata nei ranghi del decoro e del “comune senso del pudore”(le pustole anomale sono state direttamente o indirettamente espulse o asportate) in quel finale agghiacciante e antiretorico dove i contadini celebrano la ritrovata “moralità” della collettività insidiata, con una festa campestre in cui il prete risulta alleato al borgomastro, fra boccali di birra e fanfare osannanti, terrificante festa di apertura della campagna elettorale per le successive elezioni secondo riti e consuetudini ampiamente collaudati che si ripetono implacabili. Il film riesce a mettere così a nudo i “nervi scoperti” di quella società, è così netto nella denuncia, da urtare, come già aveva fatto il lavoro teatrale, la sensibilità degli abitanti di quella regione che osteggiarono e disertarono le proiezioni, segno evidente che l’obiettivo era stato pienamente centrato. Nel frattempo molta acqua è passata sotto i ponti (il film è del 1969), ma a mio avviso il substrato culturale rimane invariato, tanto da rimanere attualissima la tematica dell’opera nonostante gli anni e le mutazioni.
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