Regia di King Vidor vedi scheda film
Un punto della strada. Una breve serie di gradoni che salgono verso un portone. Circondato e sovrastato da finestre, allineate a brevi intervalli sulla facciata di un palazzo, come i quadri di un’esposizione. E, davanti a quel muro così generosamente aperto sul mondo, un pullulare di vite, colte di sfuggita, nel momento in cui attraversano quel piccolo ritaglio di città. King Vidor rispetta alla lettera le prescrizioni scenografiche di Elmer Rice, autore dell’omonimo dramma teatrale che, nel 1929, vinse il Premio Pulitzer. La stessa opera da cui, nel 1946, Kurt Weill trarrà un musical. La storia, inutile dirlo, è fatta proprio per il palcoscenico. Quello scorcio immutabile, che fa da sfondo alle vicende di tanti personaggi, è un insieme di istantanee da cui è possibile, pezzo dopo pezzo, ricomporre i puzzle delle singole esistenze. Che riescono a manifestarsi, con tutte le loro implicazioni emotive e morali, nei discorsi scambiati sulla soglia di casa, nel modo di salutare o anche solo di camminare, di aprire una porta, di scendere le scale. Un esempio di naturalismo fotografico, che affida la rappresentazione della realtà umana al ritratto in senso stretto: un’immagine che occupa una manciata di minuti, e copre una distanza di pochi metri. Eppure tocca con mano l’autenticità del dramma, quella che, anche per la gente comune, si estende dalle minute preoccupazioni quotidiane alle tragedie innescate dalle passioni più intense. In mezzo agli eventi – che, in questa storia, sono piuttosto radi – la trama si allenta per far posto alla descrizione dei caratteri, alla presentazione delle opinioni, all’espressione delle speranze e delle paure degli abitanti di quel caseggiato popolare. Ognuno si introduce da sé, mediante quel chiacchiericcio di quartiere che, tipicamente, prende spunto dai fatti che si dicono per fare riferimento all’esperienza personale, a quell’io che prende sempre il sopravvento nello scambio di confidenze tra casalinghe indaffarate, tra uomini navigati, tra giovani anime solitarie ed infelici. La parola, approssimativa, colorita, confusa o stizzita basta a conferire profondità a quel dipinto così immobile, attaccato alla parete, dalla prospettiva tanto schiacciata che le figure umane, quando si sporgono dai davanzali, sembrano spremute fuori da un eccesso di pressione, come pupazzi sparati dallo scatto di una molla. A spingerli verso l’esterno sono, oltre all’opprimente calura dell’estate newyorkese, accessi d’ira, attacchi d’ansia, furori polemici o anche solo una voglia di libertà, come quella che induce il giovane Sam, inquilino del pianoterra, a sottrarsi al controllo di un padre autoritario fuggendo attraverso la finestra. La coralità è affidata ad una mescolanza di accenti e di culture, ed è insaporita da un’antologia di vizi, manie e debolezze, che riporta alla mente il disagio che caratterizza la vita delle maggioranza delle persone, costrette ad accontentarsi del minimo, oppure a rincorrere disperate utopie di riscatto. Il contenuto del loro cuore è quello che non vediamo, eppure intuiamo dal contesto: questa visione indiretta è cinema proiettato nella nostra mente, dove appaiono tutti i fuori scena della storia, come lo spettacolo musicale di Filippo Fiorentino, il parto dell’invisibile signora Buchanan, o i clandestini convegni amorosi di Anna Maurrant e del lattaio Steve Sankey. Ciò che invece concretamente si realizza, davanti a nostri occhi, è solo una mediocre increspatura di un ordinario panorama urbano, un disordinato passaggio di frasi e gesti buttati lì un po’ a casaccio, come solitamente avviene nelle retrovie della vita, in quelle situazioni di transito in cui nessuno si sente in dovere di dare il meglio di sé. Elmer Rice e King Vidor riescono a donare, a quel trascurabile e rozzo balbettio, il suono rotondo e vigoroso di un palpito letterario, che trasforma il brusio metropolitano in musica, semplicemente facendo emergere, dal fondo, l’intero spettro delle tonalità nascoste, soffocate dall’anonima somma dei rumori. Street Scene dà voce al formicolio che popola i recessi dimenticati di una città abituata a pensare in grande: allarga l’obiettivo su un minuscolo dettaglio e riesce a far entrare, nello spazio di poche ore, l’intero enigmatico senso della vita, dalla nascita alla morte, dal sogno alla disillusione.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta