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La strada infinita

Regia di Alberto Valtellina, Paolo Vitali vedi scheda film

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La recensione su La strada infinita

di Attanasio
8 stelle

«... il lavoro di Valtellina e Vitali nasconde una profonda riflessione sul concetto di abitare, vivere e condividere gli spazi urbani»

«La strada infinita»

di Lorenzo Rossi

(apparso su "Eppen - L'esco di Bergamo" il 4 ottobre 2023)

 

https://www.ecodibergamo.it/stories/eppen/cultura/cinema_e/la-strada-infinita-borgo-palazzo-come-non-lavete-mai-vista-o_1715099_11/

 

Un cinema, una fabbrica, una scuola, alcuni negozi, una vecchia centrale elettrica. E poi un mercato, un ex ospedale, un cimitero, un centro civico... Che cosa rende un agglomerato di edifici, strade, spazi urbani – pubblici e privati – un quartiere? Bastano davvero degli elementi architettonici, una configurazione topografica e un’ubicazione all’interno della mappa di una città per designare un’entità come questa? Il film di Alberto Valtellina e Paolo Vitali dedicato a uno dei quartieri più emblematici ed eclettici della città di Bergamo, Borgo Palazzo, si interroga proprio su domande come queste.

Perché «La strada infinita» non racconta una storia in senso tradizionale e quindi non parte dalle origini, ricostruendo la nascita e lo sviluppo del quartiere nel corso dei decenni, ma mette insieme in modo volutamente disordinato le diverse realtà e le innumerevoli anime che compongono uno dei luoghi maggiormente caratterizzanti della città di Bergamo. E forse quello che più di tutti cambia pelle in continuazione. Come suggerisce il titolo, Borgo Palazzo più che un luogo è una direzione, come se sfuggisse a una definizione geografica e indicasse un percorso: un’idea di città che si rinnova sempre e all’infinito, ma sempre con una identità peculiare.

Borgo Palazzo non è il quartiere di Bergamo più popoloso (anche se è secondo dopo il centro) e nemmeno il più esteso, eppure nell’immaginario comune è una porzione di città che ingloba un’enorme fetta di territorio e popolazione. Con la sua anima operaia e popolare, inoltre, è da sempre uno dei quartieri che più si sovrappone al concetto di periferia, sia perché si sviluppa intorno a una delle principali direttrici che porta dalla provincia al centro città, sia per le criticità sociali che da sempre lo contraddistinguono. Ma anche perché come tutti i quartieri di raccordo periferici non ha particolari luoghi di interesse dal punto di vista storico-artistico (se si eccettua il cimitero monumentale, che comunque sorge in quell’area proprio perché si trova lontano dal centro) e si presenta come un qualsiasi sobborgo di una media città del nord Italia.

Realizzare un documentario su un luogo tanto comune, perfino ordinario, potrebbe quindi sembrare un gesto di poca importanza. Eppure il lavoro di Valtellina e Vitali nasconde una profonda riflessione sul concetto di abitare, vivere e condividere gli spazi urbani: una riflessione iniziata con il loro film precedente – «Il condominio inclinato» dedicato a due dei luoghi abitativi più iconici della città, i condomini “Terrazze fiorite” e “Bergamo sole” – che qui viene radicalizzata e ri-mediata in scala più ampia. Ma il loro è anche un invito a osservare e pensare spazi ai quali solitamente si dà poca importanza – sia quando li si conosce sia quando li si vede per la prima volta – con altri occhi, soffermandosi sulle specificità che li contraddistinguono, come la citazione da Paolo Nori (che a sua volta cita Viktor Šklovskij) in esergo suggerisce.

E allora luoghi consueti come quelli che via Borgo Palazzo attraversa, seziona e definisce diventano piccoli mondi, tessere di un mosaico che dialogando e interagendo con ciò che sta loro intorno si fanno espressive e dialettiche. Non è un caso che per tutto il film non si veda mai un’immagine dall’alto – nessun drone, nessuna schermata di Google Maps, nessuna mappa o cartina da scorrere col dito – proprio per significare come la visione globale privi il racconto dell’unicità e dell’eccezionalità del particolare, l’elemento più difficile da cogliere e il più complesso su cui concentrarsi: forse il più efficace per ragionare al di fuori dei luoghi comuni.

Il film inizia simbolicamente dentro la cabina di proiezione di una sala cinematografica, quella del cinema Del Borgo di Piazza sant’Anna, e da lì si dipana senza un ordine apparente su e giù per il quartiere, incontrando via via i protagonisti della vita e della società di Borgo Palazzo. Ognuno di questi a turno guida lo spettatore all’interno delle tante storie che il quartiere ospita, mentre una giovane ragazza recita passi tratti da «L’invenzione del quotidiano» di Michel De Certeau – facendo da trait d’union fra i vari microcosmi.

Al luna park di Celadina, la cui zona di ubicazione segna il confine con Borgo Palazzo, incontriamo padre e figlia giostrai che, raccontando la storia della loro famiglia, raccontano anche quella di un pezzo di città che pur cambiando nel corso degli anni resta sempre uguale. Proprio lì di fianco sorge il mercato ortofrutticolo che allo stesso modo della fiera ha ospitato e continua a ospitare generazioni di lavoratori, rimanendo un luogo pressoché intatto con il passare del tempo. Dove il passato operaio di Borgo Palazzo sembra essersi esaurito per sempre è negli spazi sconfinati della fabbrica ferroviaria Fervet, ormai dismessa da anni, e in cui alcuni vecchi dipendenti ripercorrono gli anni in cui lì lavoravano fino a 300 persone. Poco distante sorge invece uno dei luoghi più emblematici del quartiere: il centro civico polifunzionale costruito a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta mai completamente sfruttato e in breve tempo abbandonato. Oggi luogo di vandalismo, occupazione abusiva e traffici di varia natura, ci viene raccontato dal suo progettista che sconfortato è costretto a constatarne lo stato di completo abbandono.

Ma Borgo Palazzo è anche un luogo socialmente vivo, in cui si incontrano e coabitano diverse comunità. Il progetto di housing sociale su cui il film si sofferma individua proprio alcuni grandi spazi non sfruttati del quartiere – quelli del vecchio manicomio – come idonei per ricavare appartamenti per chi ne ha bisogno. Si intraprende così un complesso lavoro politico e burocratico che non ha la sola finalità di trovare soluzioni ai problemi logistici e materiali, ma anche quello ben più ambizioso di aprire spiragli per l’accoglienza e l’integrazione in un luogo storicamente incline a questo tipo di dinamiche. Lo stesso obiettivo che hanno anche gli insegnanti delle scuole che sorgono nel quartiere, intenzionati a usare i tanti spazi di cui dispongono per non lasciare che il vuoto prenda il sopravvento, laddove “vuoto” non designa solo un elemento fisico, ma anche un risvolto sociale, mentale, culturale.

Insomma, in qualsiasi direzione guardi, «La strada infinita» mostra la complessità e la grande ricchezza di alcuni pezzi di città lontani dai luoghi più abitualmente sfruttati e vissuti dagli abitanti di Bergamo. Ma rende anche molto bene l’idea di come funzionino la socialità e lo spirito di un quartiere che si trasforma e cambia in sintonia con la propria storia e la propria essenza. Perché Borgo Palazzo è in fondo l’emblema di tutti i quartieri – non solo di Bergamo – che nel 2023 non sono ancora stati toccati dalla gentrificazione. E che nonostante abbiano immense aree dismesse o abbandonate che potrebbero fare molto comodo alle speculazioni edilizie conservano un’anima autentica ancora intatta e una personalità difficile da scalfire. Ed è per questo un luogo percorso dalla storia, che non è una storia con la S maiuscola, ma un complesso di tante altre storie: quelle di chi ha vissuto, lavorato o contribuito a sviluppare e rendere vivo un pezzo di città tanto emblematico. Forse quello che più di tutti fa di Bergamo la città che è.

 

 

La strada infinita (Luca Barachetti)

«Valtellina e Vitali hanno uno sguardo sempre curioso e intelligente. Da una zona in cui sarò passato centinaia e centinaia di volte hanno tirato fuori un mondo, un mondo che ha la fecondità dei posti liminari (non tanto il confine fra Borgo Palazzo e Celadina, che è molto osmotico, ma quello fra città-centro e città-esterno, oltre che quello fra città e provincia) e viene raccontato con una sospensione di giudizio carica di umanità, di modo che sia lo spettatore a farsi un'idea di un luogo dove vengono relegate certe categorie di persone, mentre si conserva una fondamentale memoria sul passato. All'idea di centro-città come salotto buono in questo film è contrapposto in modo quantomai politico (intendo questa parola nel senso più nobile del termine) una realtà reale, fatta di problemi, nostalgie, risorse, possibilità, vite.


Mi è piaciuta molto la parte sul luna park – dei giostrai non parla mai nessuno – quella sulla ex fabbrica Fervet (anche qualche mio parente ha lavorato lì) e quella sulle acque (bella: sia nel raccontare una città inedita con cura e devozione, sia nel portare a un livello locale problemi che sono globali, come quello dell'acqua, del possesso dell'acqua e della presenza dell'acqua), momenti molto veritativi, per certi versi entusiasmanti per altri assai malinconici. Un modo di generare un'immagine che non riesco a definire in altro modo che pura, e quindi profondamente "sporca" di realtà.

 

Belle le musiche di Petra Valtellina e Filippo Mannucci e bello il rap finale del Signor K con Assalti Frontali. Ma soprattutto è proprio entusiasmante l'idea di cucire dentro la trama del racconto delle citazioni da "L'invenzione del quotidiano" di Michel de Certeau e il modo in cui i due registi lo fanno ha un'ambiguità molto generativa, nel senso che vibra lì fra la supercazzola ironica e la lettura capace di incunearsi dentro le immagini che la seguono e la precedono.

Insomma, gran bel lavoro e bella l'idea di proporlo con sottotitoli per sordi.»

Luca Barachetti

 

 

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