Regia di Doug Liman vedi scheda film
Regola rispettata. Il primo film della serie è probabilmente anche il migliore.
Liman svolge egregiamente il suo compito (finora nell’unico caso in carriera) fissando i paletti della storia tratta dal romanzo di Ludlum (struttura, dinamica della doppia progressione “a ritroso”, caratterizzazione dei personaggi principali) e dettando le coordinate della narrazione (taglio registico nervoso, ritmo serrato, clima ansiogeno ed un uso appropriato della ficcante colonna sonora di John Powell).
L’esito rinvigorisce alcuni canovacci del genere spy-story, ove al tema della fuga si lega quello del recupero del proprio passato, aggiungendo all’abituale invincibilità dell’agente/eroe la nuova dicotomia “fragilità interiore/determinazione” da opporre all’ “insicurezza/spietatezza ottusa” di servizi segreti affetti da una cronica fallibilità, e portando alle estreme conseguenze il continuo ribaltamento dei ruoli tra inseguito e cacciatori (Bourne pare fuggire ma è un implacabile predatore, la CIA sembra braccarlo mentre è perennemente assediata); nonostante certe similitudini infatti, siamo agli antipodi delle architetture di film come “Il fuggitivo”.
All’uscita della pellicola quasi nessun critico si accorse di questa “brezza innovativa”, rendendo poi più semplice “il rimediare” lodando oltremisura i capitoli successivi (soprattutto il deludente Ultimatum). Paul Greengrass è un regista decisamente superiore a Liman, ed il notevole Supremacy possiede ben altro pathos adrenalinico e straordinaria efficacia nelle sequenze d’azione, tuttavia entrambi i seguiti non potevano non incorrere in stereotipizzazioni e convenzioni mutuate da questo sorprendente e meticoloso “pilot”, accusando maggiormente l’effetto déjà vu (comunque una componente imprescindibile in questa tipologia di plot).
Identity è da rivalutare, seppure con moderazione.
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