Regia di Kathryn Bigelow vedi scheda film
C’è tutto quello che ci deve essere. C’è il rude capitano Harrison Ford che sembra per tutto il film portare i suoi uomini alla rovina e invece. C’è il suo secondo Liam Neeson che sembra non essere d’accordo su niente e invece. C’è l’equipaggio che sembra sul punto di ammutinarsi e invece. C’è soprattutto il sommergibile nucleare che sembra sul punto di fondersi e, anche stavolta, invece. Ci sono le battute che tutti ci aspettiamo, gli stereotipi che conosciamo a memoria, i momenti di pausa quando i giovani marinai si lasciano andare a ricordi e speranze nelle cuccette, i picchi di tensione quando si deve saldare il salvifico tubo al reattore (ma davvero si possono fare queste cose?). Ci sono tutti i personaggi di contorno che abbiamo visto mille volte nei film di guerra: il giovane inesperto alla prima missione che deve sposarsi, si tira indietro davanti alla morte ma alla fine si sacrifica per i compagni, la patria sovietica e il mondo intero (siamo nel 1961, l’anno della crisi dei missili a Cuba); ci sono il dottore che non può curare un bel niente e il motorista che si infila nel reattore senza battere ciglio... Domanda, a questo punto, obbligata: ma allora “K-19” è un film telefonato e prevedibile?, e Kathryn Bigelow si è messa in riga? Non proprio. C’è nel film tutto quello che sappiamo ci sarà (e che, infantilmente, vogliamo ritrovare) ma c’è anche una buona tensione narrativa dall’inizio alla fine, c’è un bel montaggio molto classico e senza esibizionismi, c’è una ugualmente classica attenzione per uomini e facce, irrigidita quella di Ford, inquieta quella di Neeson, stupefatte quelle di ufficiali e marinai che, orgogliosi di navigare sul miglior sottomarino della gloriosa marina dell’Unione Sovietica alla sua prima missione, si ritrovano rinserrati in un Titanic atomico e devono trasformarsi in eroi che il partito non vorrà riconoscere. Così, lo spettatore (ingenuo?) alla fine si autoassolve: cosa vuoi mai pretendere di più da un film di sommergibili?
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