Regia di Sam Mendes vedi scheda film
Fare previsioni non è un’arte difficile. Ha la stessa facilità con cui la “memoria corta” fa innamorare e sposare uno spettatore con un film per poi farlo fuggire con il nuovo arrivato e abbandonarlo al suo destino finché un extra del dvd o un director’s cut masterizzi il colpo di fulmine del primo incontro. Sam Mendes, affermato regista teatrale, al suo secondo film (il dettaglio che “Era mio padre” sia un’opera seconda di una carriera partita in maniera accelerata e dentro il nuovo Hollywood-system non è ininfluente), non avrà vita facile come regista cinematografico. È detestato da molti per una certa disinvoltura nel manipolare una linea media della narrazione con una certa astuzia (i falsi esperti sanno per illuminazione da proiettore che tutti i registi sono ingenui e candidi) tra le maglie di una convenzione che non deborda mai, non si inabissa nella confusione mentale, poetica, creativa dei cineasti che non sanno più rispondere alla domanda fondamentale («Che cosa è il cinema?») e girano film su quello che il cinema non è o non vuole e sa più essere. Lo stare schiacciato lungo il rigo che scivola al centro della pagina-schermo bianco complica il salto di Mendes verso l’alto dove ancora ci sono delle storie da raccontare, dei corpi da inquadrare, degli scenari da immaginare, degli attori da filmare nello sforzo immane di farci credere che hanno dimenticato il loro nome e chi siano. Eppure questo sforzo di sganciarsi dalla zona mezzana piace al pubblico non professionista, a chi si ritrova o sente i romanzi familiari (più di “American Beauty” che di “Era mio padre”) come capitoli di una vicenda personale scritti da un altro. In questo secondo film il protagonista muore perché non ha altre possibilità di sopravvivere e la sua storia, ispirata ad un graphic-book (la teoria dell’evoluzione spiega molti passaggi sia per la specie umana sia per i film), è concentrata nella memoria di un figlio e del suo viaggio con il padre mafioso irlandese nell’America del 1931. Padri e figli, Bibbia e sangue, servire e proteggere, gelo atmosferico e gelo di una forma narrativa tutta (troppo?) di testa, vendetta e riscatto, foto mortuarie e paesaggio luttuoso, tre stili principali di recitazione: l’azzeramento e il vuoto (Hanks), la sapienza dei gesti delle leggende (Newman) e le sinapsi delle caratterizzazioni da antenati degli american psycho (Law). Il film è lussuoso e gelido. Parla di viscere, di morte, di legami di sangue, di atroci nomi (del padre) e non emoziona. Cattive paternità in un’America estrapolata dalle tavole del fumetto e filtrata dal cinema (“C’era una volta in America”, “Paper Moon” , “Bonnie & Clyde” e via elencando) e dalla pittura hopperiana.
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