Regia di M. Night Shyamalan vedi scheda film
C’è aria di science fiction anni ’50, di thriller dai palpabili sottintesi hitchcockiani, di bizzarro naturalismo panteistico, in “Signs” di M. Night Shyamalan, un film composito ed eccentrico nel quale l’autore sembra seguire i propri percorsi di maturazione, ricerca ed evoluzione più che preoccuparsi di offrirci un’interpretazione lineare della vicenda. Infatti, prendendo solo come spunto (per sua esplicita ammissione) la suggestione forte dei cerchi nel grano, che all’improvviso compaiono nei campi della contea di Bucks, in Pennsylvania, dove vive la famiglia Hess, Shyamalan attraversa il territorio della fantascienza all’indietro, dall’impatto mistico-poetico dell’incontro con gli alieni di “Incontri ravvicinati del terzo tipo” di Spielberg (richiamato dall’atmosfera di concentrazione ossessiva che invade gli Hess e dalle “rivelazioni” mondiali rimandate dai notiziari televisivi) alla tensione violenta dei film di Romero (soprattutto “La notte dei morti viventi” – e che importa se là erano zombi – citata nell’assedio nello scantinato) fino a “L’invasione degli ultracorpi” di Siegel e agli altri esemplari anni ’50. Forse è proprio il film di Siegel (e magari “Gli uccelli” di Hitchcock) quello che ha sotterraneamente influenzato di più il regista: in “Signs” ciò che in realtà inquieta di più, che trasmette una inspiegabile ma percettibile sensazione di malessere, non è tanto l’invasione aliena, quanto la città e i suoi abitanti, le misteriose solitudini cui si abbandonano i protagonisti, le malattie e le inquietudini alle quali tutti soggiacciono (il bambino con l’asma e l’ex campione di baseball, l’ex pastore, la poliziotta e il dottore indiano – lo stesso Shyamalan). Persino dalla solidità insistita di Mel Gibson e di suo fratello Joaquin Phoenix (fisicamente, due contadini perfetti), dalla loro rurale scontrosità, traspaiono ambiguità irrisolte, uno stare male nei loro panni che ha radici molto più complesse di una tragedia passata, degli alieni che arrivano a turbarli e dello stesso esplicito conflitto tra il raggiunto pessimismo materialistico del primo e l’energia fideistica del secondo. In pratica sotto i tanti strati di lettura (spesso contraddittori, a volte semplicistici), da “Signs” emerge un affresco di “gotico americano”, un miscuglio di calvinismo, ingenuità pop, isolazionismo, “malattia sociale”, che oggi sono difficilmente rintracciabili in un film dichiaratamente di genere.
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