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Minority Report

Regia di Steven Spielberg vedi scheda film

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La recensione su Minority Report

di FilmTv Rivista
8 stelle

C’è un regista che, davanti a una ”moviola” sospesa in verticale (un computer del futuro), compone e assembla le immagini muovendo le mani come se dirigesse un’invisibile orchestra: le fa procedere veloci, le scarta, le riguarda, corre ansioso tra passato e futuro. In realtà, non è un regista, ma un poliziotto, John Anderton, comandante dell’unità pre-crimine che, attraverso i sogni premonitori dei pre-cogs (precognitivi), riesce a prevenire gli omicidi, salvare le vittime, a rinchiudere per sempre in carcere i potenziali assassini. È il 2054, a Washington, D.C., dove la Casa Bianca, il distretto di Columbia, il Capitol Building si ergono uguali a sempre immersi nel verde e nella ragnatela dell’intrigo politico, ma circondati da una città verticale e aerodinamica, avviluppati da strade che paiono uscite dal più ardito immaginario del XX secolo. Nelle scene ”in esterni“ di ”Minority Report“, vengono in mente ”La vita futura“ (1936) di Cameron Menzies e certi fumetti di fantascienza anni ’40, mentre in quelle in interni, nel Tempio della pre-crimine dove si scava nelle immagini prodotte dai precognitivi, negli shopping center dove l’occhio è assalito da gigantesche pubblicità vive, negli appartamenti dove ognuno può materializzare le proprie visioni e i propri rimpianti, là rifulge la tecnologia Dreamworks nel suo splendore futuribile. Un film assolutamente bizzarro, ”Minority Report“: una commistione tra antico e prossimo venturo, tra le ”things to come“ che probabilmente esistono già nei laboratori di ricerca (computer che danno forma ai sogni, ragni meccanici che prendono l’impronta dell’occhio, razzi propulsori che fanno volare gli uomini, strade magnetiche) e sinuosi giardini delle streghe dove i fiori ti avvolgono, ti stuzzicano, ti mangiano, tra caseggiati fatiscenti che paiono uscire dritti dal Kitchen’s Hell e l’asettica piscina ”amniotica“ nella quale sognano i tre ragazzi pre-cogs (sorta di ”mutanti“ asserviti a un ordine totale, comunque e sempre manipolabile), tra il libero arbitrio e un sistema che ammette il dubbio e le certezze blindate pre-crimine. Ma, come sempre nei mondi intrecciati di Philip Dick, il paradosso serpeggia: ”Non è il futuro se lo fermate“, e da qui il sospetto che forse qualche assassino che all’ultimo minuto non avrebbe ucciso sia stato rinchiuso per sempre nei tubi pneumatici sospesi del carcere (che contrastano tanto con il carceriere, che si chiama Gideon – come l’ispettore di Scotland Yard – e suona l’organo come Phibes). Perché «Tu puoi scegliere»: una frase ripetuta più volte, che è l’esplicita dichiarazione di democrazia (dei ”diritti dell’uomo“) di Steven Spielberg, nonostante tutto americano libertario. Ma il contrasto più sottile tessuto dal film è quello tra l’esplicita narrazione in chiave di thriller fantascientifico (che accumula false piste, inseguimenti e colpi di scena) e una riflessione, dolorosa e quasi ”suicida“, sul tema della visione: occhi si inseguono rotolanti come in un racconto di Hoffmann, è la loro impronta che apre le porte di laboratori e ”santuari“, è il loro sacrificio che consente, finalmente, di ”vedere“, mentre le immagini accettate come reali possono essere più false dei loro ”echi“, le fotografie truccate, gli stessi ”montaggi“ di Anderton tendenziosi. «Riesci a vedere?», continua a chiedere ossessiva Agatha, la migliore dei pre-cogs (la femmina naturalmente, come dice la ”strega“ Lois Smith), e il suo ansito si intreccia con altre frasi e sussulti disseminati nella narrazione. «Nel paese degli uomini ciechi, colui che ha un occhio solamente è re»; l’eccesso della visione distrugge le capacità percettive e tutto diventa ingannevole e indistinto. Teorico fino alla messa in dubbio del mestiere di regista, non è un caso che ”Minority Report“ si apra con una frase («Sai quanto sono cieco senza gli occhiali!») e si chiuda, nel silenzio e nell’isolamento, con tre persone che, invece di guardare, leggono.

 

Recensione pubblicata su FilmTV numero 40 del 2002

Autore: Emanuela Martini

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