Regia di Kon Ichikawa vedi scheda film
AL CINEMA
"Rossi come il sangue sono i monti e le terre della Birmania."
Nella terra ora conosciuta come Myanmar, alla fine del Secondo Conflitto Mondiale, una pattuglia di soldati giapponesi in stanza tra quei luoghi affascinanti ma desolati, finisce prigioniera delle truppe anglo-indiane.
Uno tra i soldati, il coraggioso Mizushima, abile suonatore autodidatta di arpa, si offre di raggiungere di nascosto il più vicino campo giapponese per cercare di convincerlo ad arrendersi e salvare le loro vite.
Ma il suo sopraggiungere incolpevolmente tardivo, gli mette dinanzi uno scenario degno di una vera e propria carneficina. Sconvolto, shoccato da cotanto orrore, l'uomo inizia a dare sepoltura ad ogni corpo decomposto e straziato, quasi a volergli assicurare un avvenire celeste distante da ogni oblio.
Unitosi ad un monaco buddista, l'ex soldato continua indefesso la sua opera di pietosa ricomposizione e sepoltura dei suoi commilitoni.
"Non tornerò a casa finché in Birmania resteranno insepolti i corpi dei nostri soldati...".
I colleghi lo danno inizialmente per morto, poi si accorgono che veste i panni di un taciturno monaco che si accompagna con un eccentrico e spigliato pappagallo.
Ma anziché tacciarlo come disertore, i compagni me comprendono l'operato e lo lasciano trattenersi in loco, dopo aver anche letto lo straziante saluto di addio del soldato al proprio affezionato comandante.
Girato in modo magistrale addentro ad un cospetto scenografico spesso sontuoso anche se fotografato in un livido bianco e nero, L'arpa birmana è uno struggente, poetico ed accorato apologo antimilitarista che riflette con sensibilità e finezza sulla assurdità della belligeranza che divide e semina morte e distruzione.
"Ho superato i monti, guadato i fiumi, come la guerra li aveva superati e guadati in un urlo insano".
Il film, tratto da un racconto per bambini scritto da Michio Takeyama, adattato per lo schermo da Natto Wada, riesce ad essere anche una vitale e sofferta riflessione sul significato del sacrificio patrio, sul rispetto della dignità dei caduti per la patria, sull'integrità morale che purtroppo è quasi sempre appannaggio di pochi eletti, destinati a divenire una sorta di farò contro la insensibilità e l'indifferenza che contraddistinguono sempre la massa, predisposta ad obbedire e muoversi solo per aver assicurata una propria salvaguardia, rifuggendo sacrifici ed imprese straordinarie per l'eroicità e la stoicità di ciò che le caratterizza.
Kon Ichikawa ha diretto uno dei suoi film culto: un'opera che, come il celebre e lodato carme ottocentesco di Ugo Foscolo intitolato I Sepolcri, si concentra, oltre che sulla assurdità del conflitto bellico, sull' importanza e la dignità d culto dei morti, come atto necessario a garantirne una serenità ultraterrena.
Ichikawa, molto legato alla storia, venne convinto a riprendere in età avanzata questo suo gioiello anni '50, dirigendo egli stesso una sorta di remake datato 1985. Nel finale struggente della lettura epistolare dell'addio dell'ex soldato alla propria amata guarnigione, trapela tutta la serenità ritrovata dell'uomo eletto che ha valicato le porte degli inferi, riuscendo a risalire alla luce di una più compiuta e meditata nuova esperienza di vita che guarda al misticismo, alla saggezza, alla predisposizione al perdono, purtroppo valori spesso solo idealizzati ed estranei ai più.
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