Regia di Miklós Jancsó vedi scheda film
“1919. Dopo la rivoluzione, durante la guerra civile, le forze sovietiche difendevano il nuovo regime dall’intervento degli stranieri, e dai bianchi (le forze controrivoluzionarie) da loro appoggiati. Questa è la storia di quelle opposte forze su uno dei fronti, dove dei volontari ungheresi si erano uniti alla difesa. Il luogo è un monastero abbandonato usato ora da una, ora dall’altra parte. O come ospedale da campo o come guarnigione”.
Questa è la didascalia che precede l’inizio del film, che poi procede attraverso il susseguirsi di fatti di guerra, spesso contrappuntati dalla gratuità di gesti efferati. Ci si concentra soprattutto su un gruppo di volontari internazionalisti, venuti dall’Ungheria per combattere la causa della rivoluzione proletaria. Al fianco dei Bolscevichi contro l’esercito zarista.
“L’armata a cavallo” di Miclós Jancsó è un affresco storico costruito con impeccabile eleganza stilistica, fisso sul volto degli uomini avviluppati nel turbine della storia e sulla storia che attraverso il mezzo cinematografico mette in relazione filologica i fatti di guerra scaturiti dalla rivoluzione russa con “l’aria pesante” che si respirava nell’Ungheria degli anni sessanta. Un film commissionato per festeggiare i cinquant’anni della rivoluzione d’ottobre che si risolse in un’opera tutt’altro che celebrativa, tesa, anzi, a scorgere nell’istinto ferino dell’uomo tutti i limiti della sua propensione al cambiamento. Basti il dominio sulla messinscena della bella fotografia di Tamás Somló, un bianco e nero glaciale che tende a rendere quasi indistinguibili le uniformi dei Bianchi e dei Rossi.
“L’armata a cavallo” è il secondo capitolo della “trilogia della storia” che Miclòs Jancsò girò a partire della metà degli anni sessanta, dopo “I disperati di Sandor” e prima di “Silenzio e Grido”, nel bel mezzo della "Uj Hullàm", la Nuovelle Vague ungherese di cui Jancsò fu indiscusso capostipite. Ad unire questi film è l’intento di fare della regia un occhio vigile sulla storia e di usare il piano sequenza come suo fondamentale supporto formale. Miclós Jancsó è conosciuto come uno dei più raffinati esecutori del piano sequenza, tra quelli che maggiormente hanno contribuito a farne un tramite stilistico per la creazione di una particolare forma di linguaggio.
Ne “L’armata a cavallo” l’eleganza dei movimenti di macchina accarezza la linearità del tempo e dello spazio, trasformandoli da entità astratte eternamente uguale a sé stesse a elementi concreti che interagiscono in maniera concreta con il divenire storico. Non ci sono protagonisti reali cui volgere il massimo dell’attenzione, non esiste un solo evento preciso che possa fungere da catalizzatore primario degli eventi, non c’è caratterizzazione dei personaggi o scandaglio psicologico dell’animo umano. I fatti della storia sovrastano ogni cosa incanalando le vicende umane nell’insensata abitudine a farsi vicendevolmente del male. A prevalere è come se fosse uno spirito eterodiretto che inibisce ogni essere umano dal compiere gesti autenticamente volontari. Una forza arbitraria che regola il susseguirsi della violenza negandogli ogni possibilità di potersi redimere. Ecco, sopra le regole imposte dalla guerra e dallo spirito di sopravvivenza, c’è una legge ancora più poderosa, quella che si impone con la pretesa di disciplinare il corso degli eventi con geometrica precisione. Miclós Jancsó incarna questa legge con spavalda temerarietà, allineando funzionalmente la regia a questi discorsi speculativi sulla storia. L’autore magiaro usa la finzione cinematografica che mette in scena i fatti della storia per esprimere il suo dissenso contro la coeva condizione politica dell’Ungheria. L’equidistanza dell’occhio meccanico si trasforma così in un grido di condanna contro le atroci logiche di dominio, così come i lunghi e ininterrotti movimenti di macchina fanno del campo di battaglia un palcoscenico del reale che conosce solo ruoli già assegnati. Le speranze rivoluzionarie si risolvono nella loro stessa negazione perché la guerra è un fatto in armi che per sua intima natura tende a disumanizzare chi se ne rende partecipe. Miclós Jancsó cerca di rendere questa idea assorbendo la “consueta” linearità della narrazione nell’ impeto narrativo della regia. Per questo, il film diventa anti-narrativo perché a prevalere è il susseguirsi insensato di scontri fratricidi, che senza soluzione di continuità passano da una fazione all’altra avendo come unico precetto riconoscibile quello di farsi la guerra per la guerra. La macchina da presa passa da un campo all’altro della contesa, spesso in un unico piano sequenza. Mutano le casacche e cambiano le mani che impugnano le armi, ma la maggior parte delle volte la morte giunge per dei motivi stupidi e gratuiti. Bella ed emblematica è tutta la sequenza che ritrae un gruppo di crocerossine messe in fila come se fossero in procinto di essere giustiziate da un plotone di esecuzione. All’infermiera capo viene chiesto di “separare i Rossi dai Bianchi”. Ma lei dice che non è possibile “perché sono tutti dei malati e meritano le stesse cure”. Poi il campo si allarga e come succede lungo tutto il film delle impercettibili ellissi narrative ci portano ad altri scontri in campo aperto. Fino a quello risolutivo, dove le istanze rivoluzionarie (contrappuntate dal canto della “Marsigliese”) e le forze controrivoluzionarie danno vita ad uno scenario che sembra non poter sfuggire alla sua ciclica circolarità. Grande film di uno degli autori più seminali della storia del cinema.
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