Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film
SETTE DONNE E UN MISTERO attorno ad un pluriacclamato artista passato a miglior vita. Visibili discrepanze tra il ricordo del defunto custodito dalle vedove allegre ed una controversa biografia fresca di stesura. Ma è proprio vero che un artista privato dell’apporto critico si estinguerà per sempre, mentre colui che ne usufruirà sarà additato ad eterna gloria? Tra sparatorie a vanvera, seduzioni notturne a ritmo di tango caliente, fuochi d’artificio a catinelle come se piovesse e demenzialità varie ed eventuali si snoda un rondò (leggasi harem) di femmine a profusione con in testa nientemeno che Bibi Andersson a rispolverare da perfetta ochetta la sua ammiccante componente sexy già collaudata con successo negli indimenticabili “Sorrisi di una notte d’estate”. Ma frullando il tutto ne viene fuori un irriconoscibile guazzabuglio di cui non si comprendono granché le motivazioni. O per meglio dire, un ibrido apparentemente senza capo né coda, spu(n)tato come un aborto tra due capolavori assoluti, “Il silenzio” e “Persona”, presumibilmente indigesto per lo zoccolo duro (ed anche morbido, perché no?) degli aficionados del regista. In altre parole una commedia demenzial-parodistica con tanto di estemporanei siparietti musicali, vale a dire un Bergman mai visto prima né dopo, fortunatamente, non privo d’estro a tratti anche se posto a tempo pieno al servizio di una vicenda dall'impianto dichiaratamente teatrale e dall'andamento molliccio e sussultorio che a tratti si riallaccia alle comiche degli anni ’20 in virtù di una molteplicità di atteggiamenti farseschi con tanto di musica ragtime in ambiente rigorosamente Liberty.
“A proposito di tutte queste signore si fece” racconta Bergman col senno del poi ”perché la Svensk Filmindustri aveva bisogno di guadagnare. Quel che diventò poi – ossia un film completamente artefatto – è un’altra storia. A volte ci vuol molto più coraggio per frenare che per far partire il razzo. Quel coraggio mi mancò e compresi troppo tardi che tipo di film avrei dovuto fare.”
Qual’è dunque il movente che ha portato alla realizzazione di tale pellicola oltre a quello di cercare di far ridere in un momento in cui i tempi dei “Sorrisi di una notte d’estate” e della “Lezione d’amore” sono ormai lontani, mentre il più recente “L’occhio del diavolo” va quasi a lambire il versante drammatico? Ovvio che la figura del saccente Cornelius, indiscusso protagonista e critico più che criticato, interpretato da un istrionico Jarl Kulle, ex Don Giovanni scornato, esce anche nel presente caso quasi con le ossa rotte dal quadro generale unitamente alla sua ridicolissima penna d’oca, ma da qui a catalogare un’opera dal titolo che appare come un perfetto scioglilingua (För att inte tala om alla dessa kvinnor) come uno sbeffeggiamento in toto della figura istituzionale del critico ce ne corre, anche perché la stessa figura del pluriacclamato artista (Felix è l’alter ego di Bergman, l’assortito harem vedovile lo dimostra) non ne esce affatto bene. Anzi, come qualcuno ha fatto a suo tempo osservare, al nostro autore il film gli si rivolta addirittura contro.
Autodissacrazione smitizzante dunque? Trattato dongiovannistico vitato al demenziale? Voglia di stupire (a torto) coloro che ritengono il Nostro nient’altro che un piagnone cui non va alcunché a genio? Analisi dicotomica della voglia d’onnipotenza del critico posta a confronto con la degradazione (leggasi depravazione) esistenziale dell’artista?
Sia quel che sia, neppure le più stringenti necessità di guadagno valgono a giustificare una simile prostituzione dell’arte (lo ripetiamo: la visione di “a proposito di tutte queste signore” contribuisce quasi a ridimensionare la statura intellettuale del regista) che nella finzione scenica risulta addirittura deleteria per il suo fruitore, cancellato dal mondo dei vivi a causa di un dodecafonizzante e pretestuoso “canto del pesce” finale. E neppure è possibile appellarsi alla consueta frase di chiusura “ai posteri l’ardua sentenza!” perché “tutte queste signore” ormai ultrasettantenni (il film è del 1964) sono state pressoché cancellate dalla memoria collettiva, “magno cum gaudio nostro”. Ma attenzione, sarebbe in ogni caso un’eresia attribuire un infamante “mediocre” al più grande Maestro del cinema contemporaneo, per il doveroso rispetto che tutti noi ovviamente gli dobbiamo! Anche se verrebbe spontaneo da dire: “AHI, AHI, AHI SIGNOR INGMAR, LEI MI È CADUTO SUL PESCE!”
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