Regia di Kenji Mizoguchi vedi scheda film
Il piccolo film è considerato un capolavoro della cinematografia mondiale (per alcuni “il” capolavoro), ma la ragione principale per cui l’ho cercato è data, oltre che dalla curiosità cinefila, dal titolo suggestivo che evoca fantasie malinconiche e decadenti romanticismi crepuscolari.
Trama
Siamo nel Giappone del 1500 (lo stesso narrato da Akira Kurosawa nel suo capolavoro I sette samurai del 1954). Il paese è diviso, attraversato da guerre civili, infestato da briganti e da piccoli eserciti feudali contrapposti, al servizio di signorotti sanguinari, avidi e prepotenti, perennemente in lotta fra loro.
La storia raccontata dal film è quella di due fratelli che vivono in un piccolo villaggio rurale: uno dei due - Genjur - fa il vasaio e sogna di uscire dalla miseria creando vasi che si impongano per la loro finezza ed eleganza; l’altro, il contadino Tobei, sogna di diventare un samurai e vivere avventure epiche e meravigliose.
Il vasaio, dopo aver sfornato un particolarmente fortunato set di bellissime stoviglie, decide di andare in città per venderle. Il fratello irrequieto lo accompagna in cerca di diversivi, di avventure. Il viaggio è pericoloso, come è rischioso per le due mogli restare nel paesello spesso visitato da sbandati e banditi. Ma le vendite vanno bene e il vasaio torna con un bel malloppo. Nonostante i rischi (il villaggio è minacciato da scorrerie e le strade sono infestate da masnadieri) decide di preparare un’altra infornata di vasi e di tornare in città per venderli, accompagnato questa volta anche dalle donne e dal suo bambino. Durante la traversata del lago, si rende conto dei pericoli a cui va incontro per la presenza di pirati e rimanda indietro la moglie Miyagi e il figlio, proseguendo il viaggio col fratello e la cognata.
Al mercato della città le sue ceramiche incontrano di nuovo un grande favore e vanno a ruba. Ma qui succede l’irreparabile: il vasaio Genjur viene irretito da una taciturna principessa che lo invita nel suo palazzo col pretesto di farsi consegnare dei vasi; il fratello Tobei si perde fra i vicoli tortuosi della città, sperpera i suoi risparmi per acquistare un’armatura da samurai e tenta di aggregarsi a una squadra di soldati, dimenticando la moglie Ohama.
Genjur finirà tristemente vittima di un sortilegio, sedotto dalla principessa Wakasa che si rivelerà un fantasma inquieto e addolorato, demone seduttore e nello stesso tempo vittima sconsolata di antiche violenze (proiezione del desiderio-illusione di una donna adorante? personificazione del messaggio oscuro sulla labilità del confine fra estasi e incubo?).
Sarà liberato solo grazie allo scaramantico esorcismo di un bonzo.
Il fratello, lo smargiasso Tobei, riuscirà a farsi passare per eroico combattente, ma tornerà pentito sui suoi passi dopo aver incontrato la moglie abbandonata, che sopravvive appagata in un bordello dopo essere stata rapita e violentata da una masnada di soldati.
Dopo la parentesi tragica e allegorica, i due tornano al villaggio: lo troveranno distrutto, come distrutte troveranno le loro case e il forno. E accanto alla casa diroccata Genjur troverà la tomba della moglie morta.
Aspetti formali
Il film - emozionante nella sua primitività, sospeso fra realtà e illusioni, fra asprezze concrete ed ebrezze oniriche - presenta alcune caratteristiche formali che sono fondanti del cinema che seguirà, del cinema mondiale intendo, non solo del pur sublime cinema giapponese (quello dei giganteschi Kurosawa e Ozu)
Le immagini, così come la trama, trasudano tristezza, con la loro trattenuta compostezza formale, con le inquadrature perfettamente equilibrate, con una fotografia nitida di un bianco e nero formidabile.
Due inquadrature diversissime fra loro restano per me memorabili: quella luminosa che mostra il picnic di Genjur con la principessa, con un campo lungo su un prato e silhouette di alberi spogli sullo sfondo; e quella cupa della traversata del lago sulla vecchia barca avvolta dalla nebbia.
I movimenti di macchina sono di un’eleganza sorprendente; i piani sequenza fluidi e le carrellate scorrevoli portano lo spettatore “dentro” fino al punto di immergerlo nelle atmosfere rarefatte e sognanti delle stanze dalle fragili pareti di carta e farlo partecipe stupefatto o spaventato delle torbide vicende.
Straordinario l’espediente di sottolineare le scene reali con movimenti frenetici di macchina, tesi e concitati, e quelle oniriche con rallentamenti fluidi, lirici e contemplativi.
Mizoguchi non ama il montaggio frenetico fatto col taglio (decoupage) di brevi spezzoni che rendono frenetiche le sequenze. Preferisce le sequenze lunghe e i movimenti della macchina che entra e vola sulla scena, come fluirebbe lo sguardo di un testimone presente.
Uno dei messaggi che trasmette il film (e che appare oggi un po’ manicheo, moralistico) è l’insistenza sul tema dell’ambizione che consuma, dell’avidità che muove ogni decisione e porta disgrazie. Le disavventure dei vari personaggi (soprattutto quelli maschili, sempre troppo fiduciosi nelle proprie capacità) predicano la necessità di accontentarsi; sostengono che le ambizioni e i desideri logorano e che l’impossibilità di appagarli sconvolge la vita. Il messaggio è destinato, retroattivamente, all’espansionismo giapponese fermato dalle atomiche e alla frenesia di occidentalizzazione in forsennata velocità negli anni ’50.
Mentre sorprende - soprattutto considerando la mentalità del Giappone appena uscito dalla guerra e da un regime totalitario, quasi medioevale, fortemente connotato da maschilismo - la contrapposta esaltazione, quasi una mitizzazione, delle donne (siano esse reali o fantasmi, mogli, incantatrici o prostitute) che qui si rivelano concrete, più equilibrate, con maggior capacità di giudizio e stabilità emotiva; ponderate nelle decisioni e contrarie alla guerra; e più umili (assecondano le decisioni degli uomini e ne pagano - loro - le conseguenze); più resistenti, più dotate di spirito di abnegazione (anche quando i loro uomini in ascesa le emarginano, salvo tornare quando sfumano le illusioni).
Le donne del film meritano una menzione particolare per un’altra ragione.
Se si riflette bene, tutte e tre (la principessa e le due cognate) - pur nelle loro diversissime vicissitudini e condizioni (una è morta, l’altra morirà e la terza finirà in un bordello), hanno una cosa che le accomuna: sono vittime della sconsideratezza maschile e hanno un forte attaccamento ai loro uomini o all’amore; ma, soprattutto, hanno la irresistibile nostalgia del ritorno: la principessa-fantasma Wakasa (interpretata da Machiko Kyo, che torna protagonistain Rashomon, di Kurosawa,del ’50, e che qui adotta la recitazione stilizzata e le movenze tipiche del teatro No della tradizione giapponese) riappare inquieta perché vuole sperimentare l’ebrezza della passione che le è stata negata; Miyaghi, la moglie del vasaio, ricompare premurosa fra le macerie del villaggio quando il marito ritorna definitivamente a casa, quasi a voler consolidare nel marito l’amore per il tranquillo calore domestico; Ohama, la moglie del reduce samurai, rientra amorevole nell’alveo familiare da cui era stata espulsa e costretta a subire la tragedia dello stupro e la vergogna della prostituzione.
Gli spiriti, come si vede, ricorrono in questo film ispirato a due racconti cinesi conosciutissimi in tutto l’oriente, iniziatori di una corrente letteraria e ispiratori di molti altri film. Anche se qui Mizoguchi è debitore anche di Hoffmann e Maupassant per la atmosfere che aleggiano sullo sfondo.
Legato alla sommessa lode del valore della donna e alla deplorazione della stupidità maschile, troviamo la condanna della violenza, della guerra e del militarismo (rappresentato qui da generali isterici e samurai smargiassi e ridicoli); l’elogio della semplicità della vita familiare, degli affetti solidi, della soddisfazione per le fatiche ripagate e dell’accettazione serena dei propri limiti. Colui che ottiene la gloria fa sempre soffrire qualcuno, afferma un personaggio, e la caduta è il prezzo della sua ascesa.
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