Regia di Kenji Mizoguchi vedi scheda film
Nel Giappone del ’500, in mezzo a disordini e guerre, due uomini inseguono le loro chimere: conquistare la ricchezza grazie al commercio di vasi, diventare un guerriero valoroso. Le mogli non approvano, ma li assecondano: saranno esse a pagare il prezzo più alto, però il loro sacrificio finirà per far rinsavire i mariti. Un film di raffinata suggestione formale, con atmosfere sospese fra realtà e illusione e un finale profondamente commovente. La vicenda è semplicissima, il messaggio può sembrare moralistico (accontentarsi di quello che si possiede, non nutrire aspirazioni eccessive), ma i personaggi hanno una loro verità interiore che lascia incantati. Le possibili chiavi di lettura sono molte: per limitarsi ai tre principali dizionari di cinema, Morandini lo considera una “dolente elegia sulla condizione femminile”, Mereghetti una riflessione sul ruolo dell’artista (“l’arte deve innanzitutto servire l’uomo aiutandolo a scoprire la sua realtà più profonda e non renderlo schiavo della pura bellezza”), Farinotti una critica alla società feudale e alla guerra. Personalmente ho apprezzato la spontanea commistione fra naturale e soprannaturale: i morti tornano sulla terra, come in una sorta di appendice della vita, per godere l’amore che non hanno conosciuto o per vegliare sul proprio bambino rimasto solo.
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