Regia di Kenji Mizoguchi vedi scheda film
Esistono sogni modesti e sogni ambiziosi, sogni sentimentali e sogni materiali, sogni ragionevoli e sogni assurdi, sogni di felicità e sogni di grandezza. La concitazione di questa storia di guerra civile e migrazione rappresenta il tira e molla che affligge l’umanità intera, sempre ansiosamente divisa tra due scelte opposte, tra la tentazione e la prudenza, tra la sfida e la rinuncia. Il movimento turbinoso della folla dei soldati, dei profughi, dei clienti del mercato riproduce il ribollire di un universo in continuo fermento, che distribuisce casualmente occasioni e insidie, promesse e minacce. In questo tracciato incerto e accidentato, essere artefici del proprio destino – come Genjuro, che tira avanti modellando stoviglie di terracotta – significa lavorare duramente e rischiare molto, perché se l’ottenere è una breve impresa che comporta fatica, il mantenere è un’eterna lotta contro un’infinità di pericoli. Nel Giappone feudale, i dilemmi si misurano anche con i dislivelli sociali, che costituiscono ostacoli, creando tensioni e aspettative. Guadagnare, avere, prendere, rubare o ricevere in regalo sono le modalità che definiscono lo status di ognuno e ne determinano l’eventuale cambiamento. Questo passaggio, nel quadro di una struttura rigidamente codificata, spesso avviene mediante la follia, l’unica forza che, sotto forma di magia o violenza, sia in grado di sovvertire l’ordine costituito. Fortuna è il nome di questo prodigio dalla doppia anima, che a volte ci incanta con la sua inaspettata dolcezza, a volte si impone a noi con l’irruenta prepotenza di un intruso. Questa temporanea sospensione della logica, però, non si può protrarre oltre l’effimero sprazzo di un abbaglio: subito, infatti, interviene la verità, a rivendicare la propria coerenza, e l’incrollabile persistenza dei suoi valori.
La favola di Akinari Ueda è la parabola della fuga sbagliata, dell’errore a cui si può rimediare solo ritornando alle origini: occorre allora ricominciare daccapo, ripartendo da quel punto della propria storia in cui il racconto è fuoriuscito dal paziente progredire della trama, per perdersi nella precipitazione di una fantasia sfrenata. La natura non procede per salti, e, d’altronde, all’uomo non è dato di volare: la nostra strada è una sola, che rimane attaccata alla terra, e devia unicamente per metterci alla prova.
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