Regia di Kenji Mizoguchi vedi scheda film
Decisamente suggestiva la regia che prende ispirazione direttamente dal teatro Nô. Un’opera davvero memorabile zeppa di felici notazioni psicologiche e di interessanti soluzioni narrative, di ottimi scorci fotografici e di struggenti sequenze aeree e incorporee, che hanno una ammaliante levità sognante come di vita vissuta fuori dal tempo.
Questo film può essere considerato ancora oggi, nonostante gli anni trascorsi e i sostanziali cambiamenti nel frattempo intervenuti persino nei ritmi e nelle definizioni del linguaggio cinematografico, uno dei capolavori assoluti della settima arte? Io credo proprio di sì. Il passare del tempo (cosi come accade anche al buon vino se è conservato in ottime botti), lo rende persino migliore, poichè ci fa percepire con ancora maggiore evidenza tutta la bellezza avvolgente delle sue immagini, ne amplifica l’importanza strutturale (non solo sotto il profilo dello stile), ci aiuta insomma ad elevarlo definitivamente verso i confini sublimi dell’arte, a fargli acquisire il ruolo di insuperabile “pietra miliare della storia del cinema”.
Sapientemente sospesa tra vita reale e fantasiosa immaginazione, Ugetsu Monigatari (questo il titolo originale dell’opera), è un’altra potente elegia sulla condizione della donna, che è spesso al centro della poetica mizoguchiana: una donna che personifica e rappresenta, prima di tutto, il positivismo dei valori umani più radicati e universali, ne diventa il simbolo, si potrebbe dire, persino quando assume le connotazioni di maga, incantatrice o fatale incarnazione di spiriti maligni, perché è proprio la donna - sembra voler affermare il regista – l’unica e sola a possedere una coscienza intellettuale e sentimentale coerente e costruttiva, ben lontana dalle confuse tortuosità contraddittorie proprie di quella degli uomini.
Sceneggiata con lirica aderenza da Matsutaro Kawaguchi e Yoshikata Yoda e liberamente tratta da due racconti fantastici di Akinaru Ueda (La lubricità del serpente e L’albergo di Asaji) pubblicati nel 1776 nella raccolta Ugetsu Monogatari, ma con forti riferimenti anche a una novella cinese dal titolo La casa nel canneto, la storia è ambientata verso la fine del secolo XVI nel Giappone devastato dalla guerra civile (più esattamente, nella regione di Omi, presso il lago Biwa) e racconta il percorso incrociato della vita di due uomini e di due donne, quello di un vasaio di campagna (Genjuro) e di suo fratello Tobei, un contadino che coltiva il sogno quasi impossibile di diventare samurai, e delle loro mogli (che i due uomini non esiteranno ad abbandonare, incuranti dei lutti e delle rovinose conseguenze che ne deriveranno, per seguire impossibili miraggi di presuntuosa megalomania).
Di pari passo, però, è anche una lucida analisi del conflitto esistente fra realtà e bellezza e una riflessione sulle funzioni e sulle potenzialità dell’arte, quasi a voler “definire” che poi alla fine, arte e vita sono le due fecce di una stessa medaglia, rappresentano i riflessi di una sola identica espressione.
E’ quindi anche un’opera sulla creazione artistica e sulla ricerca (impossibile?) della felicità, oltre che un articolato studio sulla condizione femminile.
Saranno comunque proprio le due mogli lasciate sole dai loro mariti (impegnati a seguire improbabili chimere) a diventare le vere protagoniste, ed anche le sole a risultare - alla fine e in un certo qual modo - “vittoriose”, nonostante il salato prezzo che avranno dovuto pagare, in virtù della loro condizione, alle più dure esperienze della sopravvivenza: la prostituzione per una di loro e persino la perdita della propria vita per l’altra.
Due “eroiche” donne umili e resistenti dunque, contrapposte all’alterigia maschile tutta tesa a realizzare il desiderio di superare i propri limiti per concretizzare inesistenti potenzialità che credono di intravedere in loro stessi, entrambi però travolti alla fine dalla loro insipienza (il vasaio, che si ritroverà da solo ad osservare il vuoto dell’ipotetica bellezza formale della sua inutile creatività, dopo essere stato sedotto e “utilizzato” da una principessa malvagia tanto bella quanto sciagurata; il contadino, millantatore e vigliacco al tempo stesso, che si confermerà spregevole e volgare nella sua pochezza umana).
La trappola dell’apparenza “irreale” contrapposta alla consapevolezza della sofferta esistenza quotidiana della vita. quindi, messe a confronto in un apologo sulle ambizioni sbagliate, e sull’eccessiva fiducia in se stessi, tutti elementi che mettono seriamente a repentaglio la dignità dell’uomo e della struttura sociale che lo circonda: guai ad abbandonare il proprio lavoro, i propri cari, la propria terra, sembra voler profetizzare Mizoguchi, poichè solo la serena e cosciente accettazione dei propri limiti - e con essa anche delle responsabilità che si prospettano nella vita ed emergono dalle fatiche di ogni giorno, che sono poi quelle dell’esistenza stessa, possono davvero metterci in armonia non soltanto con noi stessi, ma con il mondo intero: colui che ottiene la gloria fa sempre soffrire qualcuno – fa dire, non casualmente, a un personaggio – e la caduta è il prezzo della sua ascesa, la conclusione pratica.
Ma la sua polemica non è solo verso il privato dei rapporti: si orienta anche e soprattutto contro la guerra e i suoi orrori, diventa una critica indiretta di una società e di un’epoca, ed è proprio dalla complessità e dall’intreccio intricato dei fatti e delle visioni in un contesto così articolato, che il film trae il suo maggior fascino coinvolgente.
Fortemente suggestivo dal punto di vista della regia e dell’interpretazione (splendidi tutti gli interpreti, come sempre nel cinema di questo straordinario regista,con una menzione particolari per le attrici), con una impostazione generale che deriva direttamente dalla struttura del teatro Nô (che la influenza moltissimo), è davvero un’opera “straripante” di felici notazioni psicologiche ed ambientali, di interessanti soluzioni narrative, di ottimi scorci fotografici e di struggenti sequenze (quelle dedicate all’incontro con la maga-seduttrice e al conseguente soggiorno nel suo palazzo, per esempio, fra le più straordinarie dell’intera pellicola, aeree e incorporee, con una levità che definirei “sognante”, come di vita vissuta fuori dal tempo, analogamente a quelle del bagno e del pic-nic, che rappresentano i momenti culminanti dell’esperienza sessuale del vasaio irretito nelle maglie della seduttrice “infida”, ma anche la rappresentazione del villaggio messo a sacco dalle truppe, o ancora il viaggio in barca sul lago, e tutta la parte dedicata alle smargiassate del soldato spaccone nella casa da tè).
L’alternarsi e il succedersi di scene reali e di scene fantastiche, quasi simbolicamente astratte, è ottenuto con la massima semplicità dei mezzi, modificando semplicemente il ritmo del racconto: quasi frenetico e teso, insolitamente veloce e concitato rispetto al consueto modo di filmare del regista, nelle prime (sicuramente quelle con il maggior numero di efficacissimi movimenti della macchina da presa della sua intera, straordinaria carriera), quanto lento e fluido, ma di una densità avvolgente di stupefacente “presa” (i suoi favolosi, inarrivabili piani-sequenza, gli iperbolici movimenti ascensionali delle gru) nelle seconde.
La fotografia di Kazuo Myagawa è “ammaliante” (meravigliose immagini, le sue, nello stile degli acquerelli dell’Estremo Oriente, quelle che ci rimandano le visioni degli stagni velati dalla nebbia brumosa del mattino, con le barche e i canneti quasi frementi che preparano appunto gli episodi fantastici dentro il palazzo fantasma destinato poi a trasformarsi in un desolato accatastamento di rovine invase dalla vegetazione); suasivamente appassionato il commento musicale di Tamekeci Mocizuki che le contrappunta con le note felpate di una tessitura delicata ed armoniosa.
Davvero un film “cosmico” e appassionante, una colonna portante dell’intera cinematografia, come viene giustamente definito dal Mereghetti, allora: straordinario per la perfezione della forma e la ricchezza dei contenuti, un canto sul sentimento proustiano dei piaceri e dei giorni (Jean-Luc Godard).
Si può quindi concludere, come meglio non sarebbe possibile, riportando ciò che di esso ha scritto a suo tempo Astruc, e cioè che dopo solo cinque minuti di proiezione si riesce a capire chiaramente che cos’è la regia: (…) il necessario mezzo per prolungare gli slanci dell’anima nelle movenze del corpo.
Un’opera quindi imprescindibile per chi ama il "vero" cinema, da "assaporare" lentamente per lasciarsi davvero travolgere dalle profonde emozioni che suscita oggi quasi più di "allora".
P.S. Come semplici note di costume, si può aggiungere che il film fu realizzato con grande difficoltà, perchè la produzione non condivideva le idee del regista, e che lo stesso si dichiarò al termine della sua fatica, insoddisfatto del risultato.
Ancora una volta transitato dalla Mostra del cinema di Venezia, il film si aggiudicò “soltanto” un semplice Leone d’Argento, al termine di una rassegna che – se non vado errato – si rifiutò di assegnare il Leone d’oro (sic!!) per la mancanza di opere effettivamente degne di fregiarsi di tale titolo (c’è da inorridire no? considerato ciò che accade ai giorni nostri).
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta